PER NOI SARA' SEMPRE E COMUNQUE UN DISASTRO AMBIENTALE

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PER NOI E' STATO E SARA' SEMPRE UN DISASTRO AMBIENTALE

lunedì 8 agosto 2011

SENTENZA PITELLI



SVOLGIMENTO DEL PROCESSO


Con decreto in data 28 maggio 2003, il Giudice per l’udienza preliminare in sede disponeva procedersi a giudizio nei confronti di ANDREANI Antonio, ANDREOLI Sandro, BERTOLLA Franco, BERTUSI Attilio, COZZANI Ettore, COZZANI Roberto, DUVIA Orazio, MARZANI Carlo Antonio, MOTTA Giancarlo, POLOTTI Eros e SOMMOVIGO Piergiorgio (oltre ad altri), imputati dei reati loro rispettivamente addebitati in rubrica.
All’udienza del 28 ottobre, sulle richieste e questioni prospettate dalle parti in sede preliminare, il Tribunale provvedeva con apposita ordinanza, disponendo la sospensione del processo fino all’udienza del 12.2.2004.
All’udienza del 12 febbraio 2004, su istanza di parte, il Tribunale disponeva nuova sospensione del processo fino all’udienza del 1.7.2004.
All’udienza dell’1.7.2004 si disponeva lo stralcio della posizione di Motta Giancarlo a seguito della sua richiesta di applicazione di pena ex art. 444 c.p.p. (la richiesta veniva successivamente rigettata da altro collegio e per tale motivo il presente giudizio proseguiva quindi anche nei confronti dell’imputato Motta); veniva concesso termine a difesa all’avv. Elia, nominato difensore di Polotti Eros e rinviava all’udienza del 20.7.2004.
All’udienza del 20.7.2004, sulle questioni ed eccezioni preliminari formulate dalle parti, il Tribunale provvedeva come da ordinanze allegate a verbale, autorizzando la citazione quale responsabile civile della Sistemi Ambientali S.r.l. e rigettando le ulteriori richieste ed eccezioni; indi, rinviava per l’ulteriore corso all’udienza del 9.11.2004.
All’udienza del 9.11.2004, rigettate le eccezioni formulate dalle parti in ordine alla notifica della citazione quale responsabile civile Sistemi Ambientali S.r.l., il Tribunale disponeva rinvio all’udienza del 25.11.2004.
All’udienza del 25.1.2004, a seguito dell’adesione dei difensori indicati a verbale all’astensione dalle udienze proclamata dall’Unione Camere Penali Italiane, il Tribunale, sospeso il termine di prescrizione, disponeva rinvio fino all’udienza del 1.2.2005, fissando udienza altresì per i giorni 3.2.05, 8.2.05 e 10.2.05.
All’udienza del 1.2.2005, sulle eccezioni preliminari avanzate dai difensori, il Tribunale, con apposita ordinanza, escludeva la costituzione di parte civile del Ministero dell’Ambiente e del WWF Italia, rigettando le ulteriori eccezioni; rinviava quindi all’udienza già fissata per il 3.2.2005.
All’udienza del 3.2.2005, le parti formulavano ulteriori questioni preliminari e il Tribunale, con apposita ordinanza, dichiarava inammissibili le questioni relative alla riammissione, quali parti civili, del Ministero dell’Ambiente e del WWF Italia, e rinviava all’udienza dell’8.2.2005.
All’udienza dell’8.2.2005, dato atto delle ulteriori questioni preliminari formulate dalle parti, il Tribunale rinviava all’udienza del 10.2.2005.
All’udienza del 10.2.2005, sulle eccezioni formulate dalle difese, il Tribunale, riservata la decisione sulla formazione del fascicolo del dibattimento, dichiarava non opponibile agli imputati Bertusi, Andreani, Sommovigo, Andreoli, Marzani le perizie effettuate con incidente probatorio dal collegio Sanna e dal prof. Liuzzo, salvo il consenso degli stessi e fermo restando che per gli imputati Bertusi e Andreani i risultati delle operazioni peritali sarebbero stati opponibili ove fosse risultato che la ripetizione degli atti fosse diventata impossibile; dichiarava altresì non opponibile agli imputati Bertolla, Cozzani Ettore, Cozzani Roberto, Polotti, Motta, Bertusi, Andreoli, Sommovigo e Andreani la perizia eseguita in incidente probatorio dai periti Fabiano e Mele; rigettava le ulteriori questioni e disponeva rinvio all’udienza del 22.2.2005.
All’udienza del 22.2.05, sulle richieste delle parti, il Tribunale provvedeva con apposita ordinanza in ordine alla composizione del fascicolo dibattimentale. Indi, dichiarato aperto il dibattimento, sulle richieste delle parti provvedeva, con apposita ordinanza, all’ammissione dei mezzi di prova. Indi rinviava all’udienza del 22.3.2005.
All’udienza del 22.3.2005, stante l’impossibilità di comporre il collegio tabellarmente assegnatario del processo, il Tribunale rinviava all’udienza del 21.6.2005.
All’udienza del 21.6.2005, su istanza di differimento dell’avv. Corradino, il Tribunale sospendeva il termine di prescrizione e rinviava all’udienza del 27.9.2005.
All’udienza del 27.9.2005, si procedeva all’audizione del perito prof. Sanna; si disponeva la prosecuzione all’udienza del 17.1.2006.
All’udienza del 17.1.2006, a seguito dell’adesione dei difensori indicati a verbale all’astensione dalle udienze proclamata dall’Unione Camere Penali Italiane, il Tribunale, sospeso il termine di prescrizione, disponeva rinvio fino all’udienza del 31.1.2006.
All’udienza del 31.1.2006, si proseguiva con l’esame del prof. Sanna e si procedeva all’esame del dott. Floccia e del dott. Iacucci; indi, provveduto sulle ulteriori questioni formulate dalle parti nel corso dell’udienza, il Tribunale rinviava all’udienza del 28.2.2006.
All’udienza del 28.2.2006, stante l’impossibilità di comporre il collegio tabellarmente assegnatario del processo, il Tribunale rinviava all’udienza del 14.3.2006.
All’udienza del 14.3.2006, si procedeva all’esame del perito prof. Liuzzo; indi il Tribunale disponeva il rinvio del processo all’udienza del 28.3.2006.
All’udienza del 28.3.2006, a seguito dell’adesione dei difensori indicati a verbale all’astensione dalle udienze proclamata dall’Unione Camere Penali Italiane, il Tribunale, sospeso il termine di prescrizione, disponeva rinvio fino all’udienza del 9.5.2006.
All’udienza del 9.5.2006, si procedeva all’esame dei periti Fabiano e Mele; indi il Tribunale, provveduto sulle ulteriori questioni formulate dalle parti, rinviava all’udienza del 23.5.2006.
All’udienza del 23.5.06 stante l’impossibilità di comporre il collegio tabellarmente assegnatario del processo, il Tribunale rinviava all’udienza del 1.6.2006.
All’udienza del 1.6.2006, in relazione agli impedimenti dedotti a verbale dalle parti, il Tribunale, sospeso il termine di prescrizione, disponeva rinvio all’udienza del 13.7.2006.
All’udienza del 13.7.2006, a seguito dell’adesione dei difensori indicati a verbale all’astensione dalle udienze proclamata dall’Unione Camere Penali Italiane, il Tribunale, sospeso il termine di prescrizione, disponeva rinvio fino all’udienza del 24.10.2006.
All’udienza del 24.10.2006, sulle eccezioni formulate dalle parti, il Tribunale provvedeva con apposita ordinanza, dichiarando non utilizzabili gli atti d’indagine compiuti dopo la scadenza del termine delle indagini preliminari prorogato dal G.i.p. fino al 4.1.2000 e, per l’effetto, dichiarava non visionabile la videocassetta del settembre 2000; si riservava sulle questioni riguardanti l’utilizzabilità degli altri atti e disponeva il rinvio del processo all’udienza del 28.11.2006.
All’udienza del 28.11.2006, dichiarata inammissibile l’istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato formulata da Legambiente, il Tribunale rinviava all’udienza del 9.1.2007.
All’udienza del 9.1.2007, ai sensi dell’art. 129 c.p.p., il Tribunale dichiarava non doversi procedere per intervenuta prescrizione nei confronti:
• degli imputati Sommovigo, Andreoli, Motta, Polotti, Duvia in ordine al delitto di cui al capo H;
• degli imputati Sommovigo e Andreoli in ordine al delitto di cui al capo I;
• degli imputati Lavagnino e Duvia in ordine al delitto di cui al capo L;
• dell’imputato Duvia in ordine ai delitti di cui al capo P –da P1 a P 37-;
• dell’imputato Figone in ordine al delitto di cui al capo 1;
• dell’imputato Lavagnino in ordine al delitto di cui al capo 2;
• dell’imputato Marzani in ordine al delitto di cui al capo 3.
Indi, disponeva rinvio per l’ulteriore corso all’udienza del 6.2.2007.
All’udienza del 6.2.2007, sulle richieste delle parti, a seguito della sentenza in data 9.1.2007, il Tribunale provvedeva con apposita ordinanza alla rideterminazione delle prove orali ammesse, espungendo quelle ivi dichiarate sovrabbondanti, e rinviava all’udienza del 22.3.2007.
All’udienza del 22.3.2007, a seguito dell’adesione dei difensori indicati a verbale all’astensione dalle udienze proclamata dall’Unione Camere Penali Italiane, il Tribunale, sospeso il termine di prescrizione, disponeva rinvio fino all’udienza del 17.4.2007.
All’udienza del 17.4.2007, a modifica di quanto precedentemente disposto, il Tribunale ammetteva la parte civile Legambiente al patrocinio a spese dello Stato; si procedeva all’esame del CTPM dott. Sommaruga; indi, il Tribunale rinviava all’udienza del 22.5.2007.
All’udienza del 22.5.2007, si proseguiva nell’esame del dott. Sommaruga; indi il Tribunale rinviava all’udienza del 17.7.2007.
All’udienza del 17.7.2007, a seguito dell’adesione dei difensori indicati a verbale all’astensione dalle udienze proclamata dall’Unione Camere Penali Italiane, il Tribunale, sospeso il termine di prescrizione, disponeva rinvio fino all’udienza del 18.9.2007.
All’udienza del 18.9.2007, si proseguiva con l’esame del dott. Sommaruga; indi il Tribunale rinviava all’udienza del 4.10.2007.
All’udienza del 4.10.2007, stante l’impedimento dell’imputato Cozzani Ettore a presenziare all’udienza, il Tribunale, sospeso il termine di prescrizione, rinviava all’udienza del 30.10.2007.
All’udienza del 30.10.2007, si procedeva all’esame del CTPM Nevini Roberto; nel corso dell’udienza il Tribunale, a parziale modifica dell’ordinanza emessa in data 24.10.2006, preso atto delle proroghe delle indagini segnalate dall’avv. Busoni, dichiarava utilizzabili gli atti limitatamente agli imputati per i quali non era trascorso il termine di due anni dalla prima iscrizione. Indi, rinviava all’udienza del 17.1.2008.
All’udienza del 17.1.2008, si procedeva all’esame del CTPM ing. Cozzupoli; indi, sulle produzioni da parte del PM degli atti indicati a verbale, il Tribunale, assegnato termine alle altre parti per il relativo esame, rinviava all’udienza del 29.1.2008.
All’udienza del 29.1.2008, si proseguiva con l’esame del CTPM Cozzupoli; indi, riservata ogni decisione sull’utilizzabilità degli atti peritali, il Tribunale rinviava all’udienza del 26.2.2008.
All’udienza del 26.2.2008, sulle questioni ed eccezioni formulate dalle parti, il Tribunale, riservata ogni decisione, rinviava all’udienza del 6.3.2008.
All’udienza del 6.3.2008, rigettata dal Tribunale la richiesta di differimento formulata dall’avv. Boggio e confermato con apposita ordinanza del Tribunale il provvedimento emesso in data 24.10.2006, si procedeva all’esame del teste del PM Castiglia Benito; indi il Tribunale rinviava all’udienza del 3.4.2008.
All’udienza del 3.4.2008, stante l’assenza giustificata del teste Castiglia, il Tribunale rinviava all’udienza del 15.4.2008.
All’udienza del 15.4.2008, si procedeva all’esame dei testi del PM Vangeli e Angeletti; indi il Tribunale rinviava all’udienza del 20.5.2008.
All’udienza del 20.5.2008, si proseguiva con l’esame del teste Castiglia; indi il Tribunale disponeva rinvio all’udienza del 5.6.2008.
All’udienza del 5.6.2008, si proseguiva con l’esame del teste Castiglia; indi il Tribunale disponeva rinvio all’udienza del 24.6.2008.
All’udienza del 24.6.2008, in seguito a mutamento nella composizione del collegio giudicante, le parti prestavano il consenso all’utilizzabilità degli atti compiuti davanti al precedente collegio; indi il Tribunale, provveduto sulla riformulazione delle richieste di prova come da ordinanza in atti –con la quale si confermavano le decisioni adottate dal precedente collegio con il provvedimento in data 22.2.05, come modificato con provvedimento in data 6.2.2007-, rinviava all’udienza del 10.7.2008.
All’udienza del 10.7.2008, il Tribunale, dato atto dell’impossibilità di comporre il Collegio tabellarmente assegnatario del processo, e previa fissazione di un calendario di udienze fino al 28 maggio 2009, rinviava all’udienza del 13.11.2008.
All’udienza del 13.11.2008, stante l’assenza del teste Castiglia, il Tribunale rinviava all’udienza del 20.11.2008.
All’udienza del 20.11.2008, si proseguiva con l’esame del teste Castiglia; indi il Tribunale rinviava all’udienza del 4.12.2008.
All’udienza del 4.12.2008, disattese le richieste avanzate dalle difese, il Tribunale rinviava all’udienza del 15.1.2009, per il controesame del teste Castiglia da parte dell’avv. Boggio.
All’udienza del 15.1.2009, si esauriva l’esame del teste Castiglia; gli imputati rendevano le spontanee dichiarazioni di cui a verbale; si acquisivano i documenti di cui a verbale; indi il Tribunale rinviava all’udienza del 22.1.2009.
All’udienza del 22.1.2009, si procedeva con l’esame del teste Ciapica Silvio, del CFS, su richiesta del PM. Indi il Tribunale rinviava per la prosecuzione dell’esame all’udienza del 29.1.2009.
All’udienza del 29.1.2009, si proseguiva con l’esame del teste Ciapica. Indi il Tribunale, previa modifica del calendario già fissato, rinviava per la prosecuzione dell’esame all’udienza del 19.2.2009.
All’udienza del 19.2.2009, si proseguiva con l’esame del teste Ciapica. Indi il Tribunale rinviava per la prosecuzione dell’esame all’udienza del 12.3.2009.
All’udienza del 12.3.2009, si esauriva l’esame del teste Ciapica; venivano prodotti i documenti di cui a verbale; indi il Tribunale rinviava all’udienza del 2.4.2009.
All’udienza del 2.4.2009, a seguito dell’adesione dei difensori indicati a verbale all’astensione dalle udienze proclamata dall’Unione Camere Penali Italiane, il Tribunale, sospeso il termine di prescrizione, disponeva rinvio fino all’udienza del 16.4.2009.
All’udienza del 23.4.2009, rilevata l’assenza ingiustificata del teste del PM De Podestà, il Tribunale, applicate allo stesso le sanzioni di cui al provvedimento a verbale, e previa la fissazione di nuovo calendario di udienze, rinviava all’udienza del 23.4.2009.
All’udienza del 23.4.2009, stante l’impossibilità di comporre il collegio tabellarmente assegnatario del processo, per impedimento del dott. Pavich, il Tribunale rinviava all’udienza del 21.5.2009.
All’udienza del 21.5.2009, si procedeva con l’esame del teste del PM De Podestà Gianni. Indi il Tribunale rinviava all’udienza del 18.6.2009.
All’udienza del 18.6.2009, si procedeva su richiesta del PM all’esame di Bertoni Dino, Boracchia Mario, Berti Marco, Monsignori Paolo, Polverini Pierpaolo, Petrelli Patrizio, Tamagnini Marco, Lavagnini Manrico, Capineri Michele, Corbani Luigi, Murgolo Giuseppe e Misuri Giuseppe; avendo ritenuto il collegio che gli stessi, in relazione alla loro posizione, dovessero essere escussi nelle forme e con le garanzie di cui all’art. 210 c.p.p., gli stessi si avvalevano tutti della facoltà di astenersi dal deporre. Indi il Tribunale rinviava all’udienza del 25.6.2009.
All’udienza del 25.6.2009, si procedeva su richiesta del PM all’esame dei testi Conte Tiziano, Roncato Armando e Colonna Nicola; nei riguardi degli ulteriori testi Borrini Cristiano, Borzacca Norberto e Mariani Adriano, il collegio rilevava la necessità di procedere all’esame nelle forme e con le garanzie di cui all’art. 210 c.p.p., e gli stessi esercitavano la facoltà di non rispondere. Indi il Tribunale, acquisiti i documenti prodotti, rinviava all’udienza del 17.9.2009.
All’udienza del 17.9.2009, si procedeva su richiesta del PM all’esame dei testi Brucalassi Andrea, Lucchesi Pierluigi, Bandoni Luca e Borrini Cristiano (quest’ultimo nelle forme dell’art. 210 c.p.p.); non si procedeva all’esame di Ratti Andrea in quanto incompatibile con la qualità di testimone, essendo stato consulente tecnico di alcuni degli imputati); le ulteriori fonti di prova orale Bertino, Meriano, Cavalli, Barilani, Bartoli, Macchini, Campagna, De Vecchi e Bunazza, di cui veniva disposta l’audizione nelle forme dell’art. 210 c.p.p., si avvalevano della facoltà di non rispondere. Indi, acquisiti i documenti prodotti, il Tribunale rinviava all’udienza dell’1.10.2009.
All’udienza dell’1.10.2009, si procedeva su richiesta del PM all’esame dei testi Garribbo Lauro, Filippelli Marco e Raffone Carlo; indi il Tribunale rinviava all’udienza dell’8.10.2009.
All’udienza dell’8.10.2009, si procedeva su richiesta del PM all’esame dei testi Brusoni Guido e Vinciguerra Antonio; indi il Tribunale, acquisiti i documenti prodotti, rinviava all’udienza del 22.10.2009.
All’udienza del 22.10.2009, si procedeva su richiesta del PM all’esame del teste Di Bartolo Nunzio; indi il Tribunale rinviava all’udienza del 5.11.2009, fissando altresì nuovo calendario delle udienze.
All’udienza del 5.11.2009, si procedeva su richiesta del PM all’esame dei testi Carnini Sergio, Migliorini Pierluigi, Carena Gianluigi, dott. Palmieri Franco; l’imputato Sommovigo rendeva spontanee dichiarazioni; sentito nelle forme dell’art. 210 c.p.p., Bolognese Giancarlo si avvaleva della facoltà di non rispondere. Indi il Tribunale, dopo aver provveduto sulle richieste delle parti come da ordinanza a verbale, anche con riferimento all’acquisizione dei verbali di interrogatorio degli imputati meglio indicati a verbale, rinviava all’udienza del 3.12.2009.
All’udienza del 3.12.2009, non essendo possibile comporre il collegio tabellarmente assegnatario del processo, il Tribunale rinviava all’udienza del 17.12.2009.
All’udienza del 17.12.2009, si procedeva all’esame della teste di parte civile d.ssa Rodeghiero Barbara; Bonura Bartolomeo, sentito nelle forme dell’art. 210 c.p.p., si avvaleva della facoltà di non rispondere. Indi il Tribunale, dopo aver provveduto sulle richieste delle parti di cui a verbale, rinviava all’udienza del 28.1.2010.
All’udienza del 28.1.2010, a seguito dell’adesione dei difensori indicati a verbale all’astensione dalle udienze proclamata dall’Unione Camere Penali Italiane, il Tribunale, sospeso il termine di prescrizione, disponeva rinvio fino all’udienza dell’11.2.2010.
All’udienza dell’11.2.2010, si procedeva all’esame degli imputati Andreani e Sommovigo; indi il Tribunale, provvedendo sulle produzioni delle parti come da ordinanza a verbale, rinviava all’udienza del 18.2.2010.
All’udienza del 18.2.2010, si procedeva all’esame degli imputati Andreoli e Polotti; indi il Tribunale, provvedendo sulle produzioni delle parti come da ordinanza a verbale, rinviava all’udienza del 4.3.2010.
All’udienza del 4.3.2010, le difese precisavano in via definitiva i testi da esaminare a discarico, rinunciando agli ulteriori testi; a seguito di ordinanze emesse nel contraddittorio delle parti, con cui dapprima si accoglieva e poi si rigettava la richiesta di esclusione della deposizione del consulente tecnico della difesa prof. Ferri, si procedeva all’esame dello stesso prof. Ferri, che depositava note scritte; le ulteriori fonti di prova orale indicate dalla difesa, ing. Riccio e prof. Rolandi, sentite nelle forme di cui all’art. 210 c.p.p., si avvalevano della facoltà di non rispondere. Indi il Tribunale rinviava all’udienza dell’11.3.2010.
All’udienza dell’11.3.2010, si procedeva nelle forme dell’art. 210 c.p.p. all’esame del teste Galli Luca; dopo aver provveduto sulle produzioni delle parti, il Tribunale rinviava all’udienza del 25.3.2010.
All’udienza del 25.3.2010, non essendo possibile comporre il collegio tabellarmente assegnatario del processo, il Tribunale in diversa composizione invitava le parti a prestare il consenso, avanti il designando collegio, al rinnovo per lettura degli atti già svolti avanti il collegio precedente; indi, acquisite le manifestazioni di volontà delle parti rinviava all’udienza dell’8.4.2010.
All’udienza dell’8.4.2010, le parti prestavano il consenso all’utilizzabilità degli atti istruttori già assunti, anche avanti il designando Collegio. Indi il Tribunale, stabilito nuovo calendario di udienze e preso atto delle rinunce ai testi indicati a verbale, rinviava all’udienza del 18.5.2010.
All’udienza del 18.5.2010, acquisite le rinunce delle difese ai testi indicati a verbale e stante l’impossibilità di procedere nell’istruzione per assenza di testimoni, il Tribunale rinviava all’udienza del 15.6.2009.
All’udienza del 15.6.2009, stante l’impossibilità di procedere nell’istruttoria per assenza di testimoni, il Tribunale rinviava all’udienza del 13.7.2010.
All’udienza del 13.7.2010, si procedeva all’esame dei testi a discarico Aquilani Andrea e Peghini Augusto; sentito nelle forme di cui all’art. 210 c.p.p., Cerruti Tommaso si avvaleva della facoltà di non rispondere. Indi il Tribunale rinviava all’udienza del 21.9.2010.
All’udienza del 21.9.2010, si procedeva all’esame del consulente tecnico della difesa Duvia, dott. Tinti Iacopo. Indi il Tribunale rinviava all’udienza del 28.9.2010.
All’udienza del 28.9.2010, venivano depositate le note scritte redatte dal CTD dott. Tinti. Indi il Tribunale, dopo aver provveduto sulle istanze delle parti -riservandosi su quelle formulate ex art. 507 c.p.p.- e conferito incarico alla sig.ra Basalto per la trascrizione del verbale dell’udienza del 29.1.2009, rinviava all’udienza del 12.10.2010.
All’udienza del 12.10.2010, dopo aver provveduto sulle istanze e opposizioni delle parti come da ordinanza a verbale, il Tribunale rinviava per la discussione all’udienza del 19.10.2010.
All’udienza del 19.10.2010, il PM rassegnava le conclusioni che si riportano in epigrafe e depositava memoria. Il Tribunale rinviava all’udienza del 26.10.2010.
All’udienza del 26.10.2010, l’avv. Busoni rassegnava le conclusioni che si riportano in epigrafe e depositava memoria. Il Tribunale rinviava all’udienza del 9.11.2010.
All’udienza del 9.11.2010, gli avvocati Galvagna, Lamma, Bonamini e Orlandi rassegnavano le conclusioni che si riportano in epigrafe e depositava memoria. Il Tribunale rinviava all’udienza del 25.11.2010.
All’udienza del 25.11.2010, l’avv. Alamia rassegnava le conclusioni che si riportano in epigrafe e si riservava di depositare memoria. Il Tribunale rinviava all’udienza del 2.12.2010.
All’udienza del 2.12.2010, l’avv. Alamia concludeva la sua discussione e depositava memoria; l’imputato Polotti rendeva dichiarazioni spontanee. Il Tribunale rinviava all’udienza del 9.12.2010.
All’udienza del 9.12.2010, gli avvocati Elia e Celli rassegnavano le conclusioni che si riportano in epigrafe. Il Tribunale rinviava all’udienza del 13.1.2011.
All’udienza del 13.1.2011, l’avv. Celli completava la sua discussione; gli avvocati Pezzica e Pace rassegnavano le conclusioni che si riportano in epigrafe. Il Tribunale rinviava all’udienza del 20.1.2011.
All’udienza del 20.1.2011, gli avvocati Cozzani, Boselli e Civitillo rassegnavano le conclusioni che si riportano in epigrafe. Il Tribunale rinviava all’udienza del 3.2.2011.
All’udienza del 3.2.2011, gli avvocati Sommovigo, Boggio e Bracco rassegnavano le conclusioni che si riportano in epigrafe e l’avv. Bracco depositava memoria. Il Tribunale rinviava all’udienza del 17.2.2011.
All’udienza del 17.2.2011, stante l’impossibilità di comporre il collegio, il Tribunale rinviava all’udienza del 3.3.2011.
All’udienza del 3.3.2011, l’avv. Corradino rassegnava le conclusioni che si riportano in epigrafe. Indi il Tribunale rinviava per eventuali repliche all’udienza del 10.3.2011.
All’udienza del 10.3.2011, dopo le repliche delle parti, il Tribunale decideva come da separato dispositivo.
MOTIVI DELLA DECISIONE
E’ appena il caso di precisare, anticipando l’oggetto delle considerazioni che seguono, che il thema decidendum residuato alla declaratoria di prescrizione dei reati di cui alla sentenza in data 9.1.2007 è costituito dalle imputazioni di disastro ambientale aggravato (art. 434 commi 1 e 2 c.p.) di cui ai capi da A-A1 ad A18; nonché dalle imputazioni di falso ideologico contestate agli imputati Andreoli e Sommovigo ai capi J e K.
Si procederà pertanto, in via preliminare, a un’analisi in diritto del delitto di disastro ambientale, nei suoi elementi costitutivi; indi all’analisi delle questioni di merito afferenti detta figura di reato, con riguardo ai capi oggetto della corrispondente imputazione; infine, all’analisi delle emergenze probatorie riguardanti le ipotesi di falso ideologico.

PREMESSA - IL DELITTO DI DISASTRO INNOMINATO AMBIENTALE:
IL PUNTO SUGLI ELEMENTI COSTITUTIVI, CON SPECIFICO RIGUARDO ALL’AGGRAVANTE DELL’ART. 434, COMMA 2, C.P.

• L’elemento oggettivo in generale e l’interesse tutelato -
Si premette che le considerazioni che seguono muovono dalla preponderante rilevanza, nell’ambito del presente processo, delle imputazioni riferibili al delitto di disastro ambientale, contestato al capo A (e, analiticamente, ai capi da A1 a A18).
Con specifico riguardo alla disposizione-base che qui interessa, ossia partendo da quella di cui al primo comma dell’art. 434 c.p., oggetto di essa è la fattispecie relativa a chi (chiunque) commette un fatto diretto a cagionare un “disastro”.
Si tralascia di proposito, ovviamente, la specifica ipotesi del crollo di una costruzione o di parte di essa, estranea all’oggetto del processo. Il fatto che quest’ultima ipotesi e quella di disastro siano state accomunate nella stessa disposizione (scelta del legislatore assai criticata in dottrina) non trova altra spiegazione sistematica se non quella di determinare, per le due distinte fattispecie, un medesimo regime sanzionatorio.
Nell’analisi degli elementi costitutivi del reato occorre premettere che esso –con particolare riguardo all’ipotesi di “disastro innominato” che qui interessa- ha carattere sussidiario e residuale rispetto alle altre ipotesi di reato contro la pubblica incolumità che lo precedono, configurandosi come norma di chiusura rispetto alle altre fattispecie descritte e sanzionate dagli articoli che precedono.
Ciò pone il non trascurabile problema, che si esaminerà oltre, della nozione di “disastro”, sia in termini generali, che in rapporto alle fattispecie concrete nella specie contestate.
Circa l’interesse tutelato dalla norma, esso è quello della pubblica incolumità, esposta a pericolo dalle cause dolose non specificamente indicate dalla legge. Per pubblica incolumità si intende, generalmente, il complesso delle condizioni, garantite dall’ordine giuridico, necessarie per la sicurezza della vita, dell’integrità personale e della sanità, come beni di tutti e di ciascuno, indipendentemente dal loro riferimento a determinate persone. Il riferimento alla messa in pericolo della vita e dell'incolumità delle persone, indeterminatamente considerate, va comunque rapportato –come meglio si vedrà- all’ipotesi di disastro innominato (Cass. I^, n. 30216/2003).
Altro problema di cui si dirà in seguito è quello del rapporto fra le diverse ipotesi dei due commi dell’art. 434 c.p., la cui differenza, come meglio si vedrà, deriva dall’atteggiarsi dell’evento come evento “di pericolo”, ovvero “di danno”.
Ciò che va evidenziato è la stretta connessione fra l’interesse giuridico tutelato dalla norma e l’evento (di danno o di pericolo, a seconda dei casi) che si produce in conseguenza della condotta: ciò si evince con chiarezza dal fatto che nel primo comma della disposizione in esame l’evento come elemento costitutivo del reato (ovvero la condizione obiettiva di punibilità, come altri ritiene) è dato dal verificarsi del pericolo per la pubblica incolumità. Dunque, con speciale riguardo all’ipotesi di disastro innominato, il perimetro del bene-interesse giuridico protetto dalla norma coincide con l’individuazione –a maglie larghe- dell’evento al cui verificarsi è rimessa la risposta sanzionatoria.
Va tuttavia precisato che, accanto all’interesse giuridico tutelato in via principale e generale (quello della pubblica incolumità rapportata alla collettività dei cittadini), si tende a ravvisare un ulteriore interesse protetto in via secondaria e puntuale, costituito dall’interesse dei singoli individui a ricevere tutela delle loro posizioni soggettive attinenti ai beni della vita eventualmente colpiti dall’evento (di pericolo o di danno). È peraltro chiaro che tale tematica attiene piuttosto all’offesa in concreto a detti beni della vita e all’individuazione, nello specifico, dei soggetti passivi del reato (ossia, in definitiva, alla monoffensività o plurioffensività del reato): di ciò si dirà nel paragrafo che segue.
Il reato in esame, quanto meno nella sua forma dolosa, è strutturato –in specie al comma 1- come delitto di “attentato”, o a consumazione anticipata, per tale intendendosi secondo la dottrina e la giurisprudenza il tentativo di compiere atti diretti a mettere in pericolo la pubblica incolumità. È un reato “a forma libera”, atteso che non vi è una specifica configurazione dell’atto o del fatto costitutivo dell’azione od omissione: il che sottolinea, specie nell’ipotesi in esame, la natura residuale e sussidiaria della disposizione incriminatrice; ed anche, giova precisarlo, l’ampio raggio della tutela accordata dal legislatore, attraverso questa norma, al bene dell’incolumità pubblica.
Di seguito, si avrà cura di illustrare i fondamenti giuridici e l’ambito di applicazione della norma, ovviamente con specifico riguardo alle ipotesi dedotte in contestazione.

• Il soggetto attivo e i soggetti passivi del reato –
Soggetto attivo della disposizione è “chiunque”: si tratta dunque di un reato comune, quanto meno nella sua forma commissiva.
Peraltro, in relazione a determinate attività pericolose, specie in ambito industriale, si pone il problema di individuare –soprattutto con riguardo a eventuali condotte omissive- il soggetto portatore di una posizione di garanzia; e ciò anche con riferimento alle ipotesi dolose di reato, atteso che anche la condotta caratterizzata da dolo (specie laddove si tratti di condotta omissiva) può essere ascritta a colui il quale ha, in base a tale posizione, il dovere di compiere determinate azioni in funzione, appunto, di quella posizione: ossia un dovere giuridico di attivarsi per impedire l’evento.
Naturalmente, però, sarà possibile in tale ipotesi che si abbia concorso di persone nel reato, eventualmente anche da parte dell’extraneus.
Laddove invece la condotta sia commissiva, anche se essa abbia luogo in relazione al compimento di una determinata attività industriale o, più generalmente, produttiva di beni o servizi, deve aversi riguardo a colui il quale, indipendentemente dalla sua eventuale posizione di garanzia, ha posto in essere, o ha concorso a porre in essere, quella condotta.
Dunque, nelle fattispecie concrete che qui interessano, occorre distinguere le ipotesi omissive –nelle quali i responsabili vanno individuati in base alla loro posizione di garanti della pubblica incolumità, in relazione all’omessa ottemperanza al loro dovere giuridico di porre in essere una determinata condotta- rispetto alle ipotesi commissive – delle quali dev’essere chiamato a rispondere chiunque abbia concorso alla realizzazione della serie causale che ha determinato l’evento (di pericolo o di danno, a seconda dei casi).
Nell’individuazione dei soggetti passivi occorre distinguere, a seconda che si ritenga il reato in parola monoffensivo o plurioffensivo.
Se si parte dalla prima opzione, si indicherà come soggetto passivo la collettività indistinta dei cittadini, titolare dell’interesse giuridico protetto in via principale dalla norma, ossia quello della pubblica incolumità.
Se invece, come appare preferibile aderendo a una visione “realistica” della norma, il reato deve considerarsi plurioffensivo, cioè tale da incidere non solo sull’interesse collettivo alla pubblica incolumità, ma anche su quello individuale delle persone di volta in volta lese dal reato stesso, non potrà che riconoscersi a queste ultime la qualità di soggetti passivi del reato.
In linea generale, la Cassazione sembra scegliere questa seconda tesi, in particolare quando riconosce che anche i reati di pericolo contro la pubblica incolumità abbiano natura plurioffensiva, laddove essi in via secondaria colpiscano anche il patrimonio (cfr. Cass. I^, n. 16510/89); e, deve inferirsi, laddove essi colpiscano in via secondaria qualunque bene della vita economicamente apprezzabile, che sia messo in pericolo (e, a maggior ragione, che sia danneggiato) dal reato.

• La condotta: attiva od omissiva –
Trattandosi di reato a forma libera, il delitto di disastro innominato può essere realizzato con qualsiasi condotta, idonea e causalmente orientata (Cass. 11 febbraio 1991, Abel), sia essa commissiva oppure omissiva.
Si è detto quali siano le differenze che ciò comporta in ordine alla riferibilità soggettiva di detta condotta, ossia all’individuazione del soggetto attivo.
Deve ritenersi, in analogia agli altri delitti contro l’incolumità pubblica, che, per stabilire l’idoneità della condotta, occorra operare un giudizio ex ante, che consenta di stabilire se detta condotta sia o meno idonea a porre in pericolo la pubblica incolumità. È stato al riguardo sostenuto in giurisprudenza che tale giudizio ex ante deve individuare l’idoneità della condotta quando essa comporti l’uso di mezzi dotati di particolari requisiti di diffusività del danno alle persone (è quanto affermato, relativamente ad ipotesi di strage, da Cass. I^, n. 13988/89). Nel caso che ci occupa, la valutazione ex ante dell’idoneità va rapportata al danno o al pericolo nel quale si ritiene consista l’evento del reato, tenendo conto della nozione che allo stesso viene data, e di cui si dirà in seguito.
Non appare improprio ricordare che, nell’ipotesi di disastro colposo, la giurisprudenza ha affermato che la prevedibilità dell'evento dannoso va accertata con criteri "ex ante" e va valutata dal punto di vista dell'agente (non di quello che ha concretamente agito, ma dell'agente modello) per verificare se era prevedibile che la sua condotta avrebbe potuto provocare quell'evento (Cass. IV^, n. 4675/2007). In altra e più chiara pronuncia (Cass. IV^, n. 19342/2007) si afferma che l’effettività della capacità diffusiva del nocumento (cosiddetto pericolo comune) nel delitto di disastro innominato colposo dev’essere accertata in concreto con giudizio ex ante.
È del tutto evidente che il rimprovero per l’idoneità causale della condotta va mosso anche al soggetto attivo del delitto di disastro doloso, una volta che si stabilisca che la condotta (volontaria) dello stesso fosse idonea a produrre l’evento in base ad analogo criterio di valutazione ex ante.
È di particolare interesse, in relazione alla casistica che ci occupa, osservare che fin dalla nascita del vigente codice penale ci si pose il problema di ricondurre nella figura del disastro innominato condotte produttive di eventi di comune pericolo aventi portata distruttiva quale conseguenza “dello sviluppo assunto dalla attività industriale e commerciale, ravvivata e trasformata incessantemente dai progressi meccanici e chimici” (Relazione al codice, 224-225). Ciò, fra l’altro, spinse a configurare la norma in esame come norma di chiusura, “destinata a colmare ogni lacuna che di fronte alla multiforme varietà dei fatti possa presentarsi nelle norme di questo titolo concernenti la tutela della pubblica incolumità” (ibidem).
È noto che, in tempi relativamente recenti e in conseguenza di gravi accadimenti connessi ad attività lato sensu produttive, la normativa comunitaria e nazionale hanno individuato e disciplinato attività potenzialmente connesse a rischi di incidenti rilevanti connessi a determinate attività industriali (cfr. direttiva CEE 82/501 recepita con DPR 175/88), o all’impiego di determinate sostanze pericolose (direttiva 96/82 CEE, recepita con D.Lgs. 334/99, il quale fra l’altro individua una serie di soggetti garanti della pubblica incolumità negli stabilimenti in cui sono presenti sostanze pericolose in quantità uguali o superiori a quelle indicate nell’allegato I; e indica altresì le responsabilità e gli obblighi in materia in capo agli organi statali, centrali e periferici, e a quelli locali della P.A.).
Giova ricordare che la Corte Costituzionale, chiamata a giudicare del rispetto del principio di tassatività penale della disposizione in esame in un’ipotesi di disastro ambientale, ha affermato che la nozione di altro disastro si connette all’impossibilità pratica di elencare analiticamente tutte le situazioni astrattamente idonee a mettere in pericolo la pubblica incolumità e, ciò, soprattutto in correlazione all’incessante progresso tecnologico che fa continuamente affiorare nuove fonti di rischio e, con esse, ulteriori e non preventivabili modalità di aggressione del bene protetto; il che quindi consente di ricomprendere nella nozione in esame quelle riconducibili al cosiddetto “disastro ambientale” (va comunque detto che la Consulta, in tale pronunzia, ha espresso l’auspicio di un intervento legislativo inteso a disciplinare in modo autonomo tali fattispecie criminose, in relazione ai problemi interpretativi che possono porsi nel ricondurre alcune ipotesi, fra cui in particolare quelle di disastro ambientale, al paradigma del disastro innominato).
Con riguardo ad ipotesi di disastro ambientale, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che la condotta del delitto in esame può consistere nell'attività di contaminazione di siti destinati ad insediamenti abitativi o agricoli con sostanze pericolose per la salute umana, laddove essa assuma connotazioni di durata, ampiezza e intensità tale da risultare in concreto straordinariamente grave e complessa (Cass. V^, n. 40330/2006). In altra pronuncia, è stata ravvisata come idonea a integrare il reato in esame l’imponente contaminazione di siti mediante accumulo sul territorio e sversamento nelle acque di ingenti quantitativi di rifiuti speciali altamente pericolosi (Cass. III^, n. 9418/2008). Va da sé che, una volta delineati i contorni della condotta riferibile al reato in esame, la stessa andrà rapportata all’evento che ne consegue, in ordine al quale nel paragrafo successivo (e, per l’ipotesi di cui al capoverso, nel paragrafo 7) sarà illustrata la nozione ai fini della configurabilità del delitto.
Va notato che, nell’ipotesi di cui al primo comma, la condotta consiste nel compimento di un fatto “diretto” a cagionare il disastro; il che è coerente con la struttura tipica del delitto di attentato. Su ciò che si intenda per fatto “diretto” a cagionare il disastro si dirà meglio nel trattare l’elemento soggettivo del reato.
Va infine rapportata la condotta nel reato in esame all’ipotesi di concorso di persone nel reato.
Secondo i principi generali –che appaiono pienamente applicabili al reato in esame- il contributo concorsuale assume rilevanza non solo quando abbia efficacia causale, ponendosi come condizione dell'evento lesivo, ma anche quando assuma la forma di un contributo agevolatore, e cioè quando il reato, senza la condotta di agevolazione, sarebbe ugualmente commesso, ma con maggiori incertezze di riuscita o difficoltà. Ne deriva che, a tal fine, è sufficiente che la condotta di partecipazione si manifesti in un comportamento esteriore idoneo ad arrecare un contributo apprezzabile alla commissione del reato, mediante il rafforzamento del proposito criminoso o l'agevolazione dell'opera degli altri concorrenti, e che il partecipe, per effetto della sua condotta, idonea a facilitarne l'esecuzione, abbia aumentato la possibilità della produzione del reato, perché in forza del rapporto associativo diventano sue anche le condotte degli altri concorrenti (Cass. IV^, n. 24985/2007; Cass. V^, n. 21082/2004).
E’ poi noto che il contributo causale del concorrente può anche essere esclusivamente morale, e che in tal caso esso può manifestarsi attraverso forme differenziate e atipiche della condotta criminosa (istigazione o determinazione all'esecuzione del delitto, agevolazione alla sua preparazione o consumazione, rafforzamento del proposito criminoso di altro concorrente, mera adesione o autorizzazione o approvazione per rimuovere ogni ostacolo alla realizzazione di esso: Cass. SS.UU. n. 45276/2003).
In tali, diverse forme di contributo –sia esso materiale o morale, decisivo o semplicemente agevolativo- può integrarsi in termini oggettivi la condotta del concorrente nel reato di disastro innominato; e ciò si verificherà in rapporto all’evento (di pericolo o di danno) previsto dalla norma di riferimento, in base al nesso causale tra detto contributo e l’evento, e in base all’elemento soggettivo del concorrente, nei termini che meglio saranno esaminati nei paragrafi che seguono.

• l’evento nell’ipotesi di cui al comma 1°–
Se si prende in considerazione l’ipotesi di disastro innominato, cui al comma 1° dell’art. 434 c.p., si rileva che l’evento è riferito al compiersi di un fatto diretto a cagionare un “disastro”, “se dal fatto deriva pericolo per la pubblica incolumità”.
L’evento naturalistico non è dunque il disastro in sé, ma una condizione di pericolo per la pubblica incolumità, derivante da una condotta “diretta” a cagionare un disastro. Si vedrà che, se il disastro si verifica, è configurabile l’ipotesi aggravata di cui al secondo comma, che è poi quella oggetto di imputazione.
Restando per un attimo all’ipotesi del primo comma, è di tutta evidenza che si tratta di un evento di pericolo (e non di danno), anzi di un evento consistente nel pericolo per la pubblica incolumità, frutto della condotta di cui si è detto. In sostanza deve verificarsi una condizione in cui vi sia il pericolo di un disastro; e ciò postula, appunto, la definizione della nozione di disastro.
La giurisprudenza di legittimità ha delineato tale nozione, anche con riferimento alle ipotesi di disastro ambientale che qui in particolare interessano.
Sul piano della nozione di “disastro”, la definizione offerta da Cass. III^, n. 9418/2008, è quella di una “potenza espansiva del nocumento unitamente all'attitudine ad esporre a pericolo, collettivamente, un numero indeterminato di persone, sicché, ai fini della configurabilità del medesimo, è necessario un evento straordinariamente grave e complesso ma non eccezionalmente immane”.
Rapportando tale nozione, secondo un procedimento di inversione logica, all’ipotesi di cui al primo comma (pericolo di disastro), deve inferirsi in linea generale che essa attiene a una condizione in cui vi sia il pericolo del verificarsi del nocumento delle dimensioni, dell’estensione e della rischiosità per la collettività indicate dalla giurisprudenza a proposito della nozione di disastro.
È chiaro che l’idoneità della condotta a cagionare l’evento va valutata necessariamente ex ante, come si è detto in precedenza; mentre ovviamente l’idoneità dell’evento a determinare il pericolo per la pubblica incolumità dev’essere valutata ex post rispetto alla condotta, ma ex ante rispetto ai possibili effetti pericolosi (o, come si è affermato, alla capacità diffusiva) dell’evento, ossia in relazione al determinarsi di una concreta esposizione collettiva a pericolo di un numero indeterminato di persone.
Al riguardo, secondo Cass. IV^, n. 19342/2007 (in tema di disastro innominato colposo), è necessaria una concreta situazione di pericolo per la pubblica incolumità, nel senso della ricorrenza di un giudizio di probabilità relativo all'attitudine di un certo fatto a ledere o a mettere in pericolo un numero non individuabile di persone, anche se appartenenti a categorie determinate di soggetti. A tal fine, l'effettività della capacità diffusiva del nocumento (cosiddetto pericolo comune) deve essere, con valutazione "ex ante", accertata in concreto, ma la qualificazione di grave pericolosità non viene meno allorché, eventualmente, l'evento dannoso non si è verificato.
Oggetto del pericolo è il verificarsi di un “disastro”; nel senso che la condizione di probabilità riguardi il verificarsi di un evento che sia straordinariamente grave e complesso ma non nel senso di eccezionalmente immane, essendo necessario e sufficiente che il nocumento abbia un carattere di prorompente diffusione che esponga a pericolo collettivamente un numero indeterminato di persone e che l'eccezionalità della dimensione dell'evento desti un esteso senso di allarme, sicché non è richiesto che il fatto abbia direttamente prodotto collettivamente la morte o lesioni alle persone, potendo pure colpire cose, purché dalla rovina di queste effettivamente insorga un pericolo grave per la salute collettiva (Cass. V^, n. 40330/2006: in detta pronunzia, riferita ad ipotesi di disastro ambientale, si afferma, fra l’altro, che “si identificano danno ambientale e disastro qualora l'attività di contaminazione di siti destinati ad insediamenti abitativi o agricoli con sostanze pericolose per la salute umana assuma connotazioni di durata, ampiezza e intensità tale da risultare in concreto straordinariamente grave e complessa, mentre non è necessaria la prova di immediati effetti lesivi sull'uomo”).
Ciò che merita un chiarimento è, però, la distinzione fra il “pericolo di disastro” di cui al comma 1° (che comprende già il verificarsi di una condizione di pericolo per la pubblica incolumità) e il “disastro” al cui verificarsi è legata la fattispecie aggravata di cui al comma 2°, e che è strutturato come evento di danno, implicando il prodursi di effetti qualificabili come nocivi per l’uomo, ma senza la necessità che tali effetti nocivi siano anche concretamente e immediatamente lesivi: nel che non può sfuggire un ulteriore elemento di “pericolo per la pubblica incolumità”.
In poche parole, si pone la necessità di una chiara distinzione dell’evento di pericolo di cui al primo comma, rispetto all’evento di danno (disastro) del secondo comma. Distinzione di fondamentale importanza, poiché ad essa è legata una differenziazione sostanziale nel trattamento sanzionatorio.
Si è correttamente osservato, in dottrina, che le due disposizioni (quella del primo e quella del secondo comma) sono collegate da un rapporto di progressività, sia per ciò che attiene le ipotesi di crollo, sia per ciò che riguarda le ipotesi di disastro: in pratica, il “pericolo per la pubblica incolumità” di cui al primo comma viene riferito alla concreta possibilità di esposizione della collettività al verificarsi di un disastro, ossia di una situazione avente caratteristiche di diffusività e immediato rischio per la vita e per la salute, mentre il “disastro” di cui al secondo comma è dato dal verificarsi del danno (a carico di beni di varia natura, fra cui quelli attinenti all’ambiente) che realizza la messa in pericolo, o anche la lesione, della vita e della salute della collettività di persone.
Una distinzione che non è solo quantitativa, ma ha in sé caratteristiche di progressività nel verificarsi del danno: in tema ambientale, il pericolo per la pubblica incolumità di cui al comma primo deriva dall’esposizione dell’ambiente –derivante dalla condotta del soggetto attivo- al rischio di pregiudizi che costituiscano una minaccia per l’uomo; il disastro consiste nel concreto verificarsi di quei pregiudizi a carico dell’ambiente, e delle conseguenti condizioni diffuse di rischio immanente, e dunque di minaccia, per la salute e per la vita della collettività interessata. In altri termini, ciò che distingue il semplice pericolo per la pubblica incolumità dal disastro vero e proprio non è tanto la diffusività degli effetti e l’intensità della minaccia, quanto piuttosto il fatto che essi siano correlati al prodursi di un evento naturalistico di danno. Ciò nel senso che, mentre il “pericolo per la pubblica incolumità” di cui al primo comma non è necessariamente legato al verificarsi di un evento naturalistico (comprensivo, cioè, di un mutamento della realtà materiale), il “disastro” è necessariamente legato a tale evento, il quale deve consistere, secondo quanto affermato dalla giurisprudenza sopra citata, in un nocumento che abbia un carattere di prorompente diffusione e che esponga a pericolo collettivamente un numero indeterminato di persone, laddove l'eccezionalità della dimensione dell'evento desti un esteso senso di allarme, senza necessità che il fatto abbia direttamente prodotto collettivamente la morte o lesioni alle persone, ma essendo quanto meno necessario che esso colpisca cose, purché dalla rovina di queste effettivamente insorga un pericolo grave per la salute collettiva.
Si tornerà sull’argomento nel successivo paragrafo 7.

• il nesso causale e la qualificazione giuridica degli eventi di cui al 1° e al 2° comma –
A completamento dell’elemento materiale del reato in esame vi è l’analisi del relativo nesso causale. Al riguardo, l’analisi apparentemente non comporta in sé particolari problemi, atteso che, quanto al primo comma, esso deve costituire un legame eziologico (in termini, quindi, di riferibilità soggettiva sul piano della concatenazione logica) fra la condotta diretta a cagionare un disastro e l’evento di pericolo, costituito dal verificarsi di un pericolo per la pubblica incolumità; quanto al secondo comma, esso deve consistere nel legame eziologico fra la condotta del soggetto attivo indicata al comma primo, e il verificarsi del disastro, nella nozione di cui si è detto.
Tuttavia mette conto verificare se il prodursi della condizione di pericolo per la pubblica incolumità di cui al primo comma costituisca condizione obiettiva di punibilità, e venga quindi sottratta alla volontà e rappresentazione dell’autore; ovvero se sia elemento costitutivo della fattispecie, e debba quindi formare oggetto di volizione e rappresentazione (e quindi di dolo) da parte del soggetto attivo.
Mette altresì conto verificare se il prodursi del disastro di cui al comma secondo si ponga come semplice circostanza aggravante (con conseguente assoggettamento a giudizio di bilanciamento), ovvero determini una fattispecie di delitto aggravato dall’evento (il che significa che l’evento si verifica indipendentemente dalla riferibilità di esso alla volontà dell’agente), o ancora integri elemento costitutivo di un’ipotesi autonoma di reato, che deve quindi essere voluto dal soggetto attivo.
Le problematiche che ci si accinge ad affrontare hanno rilevanza non solo per gli immediati effetti sull’inquadramento oggettivo della fattispecie, ma anche –come meglio si vedrà successivamente- sulla focalizzazione dell’elemento soggettivo, riferito alle ipotesi di entrambi i commi dell’art. 434 c.p..
Quanto alla prima questione, il verificarsi del pericolo per la pubblica incolumità è formalmente e apparentemente strutturato come una condizione esterna al fatto tipico, cui è però rimessa la perseguibilità penale dello stesso; in questo senso è orientata la dottrina tradizionale. Ma a ben vedere la tesi, contestata dagli autori più recenti, non appare convincente, poiché in tal modo si finisce per escludere dal fatto tipico, e dalla sfera di volizione e rappresentazione dell’autore, il proprium dell’offesa, ossia la messa in pericolo dell’incolumità collettiva, e ciò all’interno di una categoria di delitti come quelli contro l’incolumità pubblica. Di fatto, è stato acutamente osservato, escludendo dalla struttura del reato il verificarsi del pericolo per la pubblica incolumità, e trasformandolo in un evento esterno da cui dipende unicamente la risposta punitiva, si finisce di svuotare di contenuti il fatto tipico, che si risolverebbe in una mera condotta “diretta” a cagionare il disastro, senza alcun altro elemento di disvalore e di offesa; oltre a ciò, si svuoterebbe di contenuti la stessa collocazione sistematica della norma. Per tali ragioni, appare preferibile qualificare l’evento di pericolo di cui al comma primo come un elemento costitutivo della fattispecie, che come tale deve rientrare nel fuoco del dolo del soggetto attivo, nei termini di cui si dirà appresso.
Quanto alla seconda questione, attinente la qualificazione giuridica del disastro verificatosi nell’ipotesi del capoverso dell’art. 434 c.p., vi è una tesi tradizionale che qualifica tale ipotesi come aggravante a effetto speciale: è la tesi di chi sostiene che l’evento previsto dal secondo comma comporta una modificazione quantitativa, e non qualitativa, del disvalore espresso dall’ipotesi di cui al comma primo.
Altra tesi oppone l’argomento secondo cui, con il verificarsi del disastro, si realizza compiutamente l’offesa punita dal comma 1 allo stadio di incompleta realizzazione, ossia di tentativo; ne discenderebbe che l’ipotesi di cui al capoverso sarebbe autonoma figura di reato, poiché sarebbe incongruo considerare circostanza l’evento su cui si proietta l’intenzione dell’agente; ed anzi, tra le due ipotesi vi sarebbe un rapporto di reciproca esclusione, perché nel caso di cui al secondo primo comma il disastro si verifica (evento di danno), mentre in quello di cui al primo comma esso deve necessariamente mancare (sussistendo un semplice evento di pericolo). Si è tuttavia sostenuto, a contrario, che anche in altre ipotesi espressamente qualificate come aggravanti l’evento aggravatore costituisce oggetto di dolo, quindi non vi sarebbe ragione per escludere che anche l’ipotesi in esame si possa qualificare come aggravante.
Un’altra tesi propende per la qualificazione dell’ipotesi in questione come delitto aggravato dall’evento, con la non trascurabile conseguenza che detto evento –il disastro, nella specie- sarebbe escluso dalla sfera del dolo e verrebbe posto oggettivamente a carico del soggetto attivo; a tale tesi viene opposto l’argomento secondo cui il disastro è necessariamente frutto della volizione dell’autore, atteso che esso non è altro che la realizzazione della volontà dell’agente considerata la fattispecie-base di cui al primo comma.
Appare preferibile la tesi che configura l’ipotesi di cui al comma secondo come un’aggravante a effetto speciale; non si ritiene, cioè, fondata la tesi che qualifica il disastro di cui al comma 2° come un delitto autonomo, atteso che non solo vi sono altri casi in cui viene considerata circostanza aggravante l’evento costitutivo dell’oggetto del dolo, ma oltretutto, nella specie, non può nemmeno parlarsi di vera e propria esclusione reciproca fra l’ipotesi di cui al comma primo e quella di cui al comma secondo, atteso che, come si è già avuto modo di osservare –e come del resto è agevole verificare nella pratica-, l’ipotesi di cui al capoverso costituisce di fatto una progressione rispetto alla struttura del reato di cui al capo primo: nulla infatti esclude –ed anzi è in concreto frequente- che il verificarsi del disastro (che oltretutto, per espressa previsione di legge, è teleologicamente l’obiettivo della condotta punita dal primo comma) intervenga in un momento successivo rispetto al semplice verificarsi della situazione di pericolo per la pubblica incolumità, e di esso costituisca per così dire l’evoluzione.
Va invece decisamente respinta la tesi che qualifica l’ipotesi di cui al secondo comma come delitto aggravato dall’evento, essendo del tutto evidente, attraverso la lettura del primo comma, che la condotta ivi prevista, essendo “diretta” a cagionare un disastro, presupponga la necessaria estensione dell’elemento soggettivo del reato anche al disastro che integra l’ipotesi di cui al secondo comma, circostanza questa incompatibile con la qualificazione di tale ipotesi come delitto aggravato dall’evento.
Dalle considerazioni che precedono discende che, in tema di concorso di persone nel reato, l’evento di pericolo di cui al comma primo dovrà essere oggetto dell’elemento soggettivo del concorrente, nei termini di cui al paragrafo che segue; e che il verificarsi del disastro (evento di danno e circostanza aggravante) di cui al secondo comma sarà, a sua volta, necessariamente da ricollegare, sempre sul piano soggettivo, all’atteggiamento mentale di ciascun concorrente, manifestatosi all’esterno con il suo contributo materiale.

• l’elemento soggettivo –
Uno degli aspetti più delicati nell’analisi della figura di reato in esame è quello dell’elemento soggettivo che lo caratterizza.
Limitando, per ora, l’analisi all’ipotesi di cui al comma primo (e rinviando al successivo paragrafo 8 per l’esame dell’ipotesi di cui al secondo comma), è sicuramente richiesto il dolo diretto, ossia la coscienza e volontà, di compiere l’azione od omissione idonea e diretta a cagionare il disastro. Quanto all’evento di pericolo che integra la fattispecie, ossia il pericolo per la pubblica incolumità che deriva da tale condotta, si è visto che la tesi che qui si preferisce qualifica tale evento come elemento costitutivo del reato e, come tale, rientrante necessariamente nella sfera del dolo.
Il problema-chiave, però, è se il soggetto attivo debba avere, oltre alla coscienza, anche la volontà di realizzare l’evento di pericolo in questione; ovvero se sia sufficiente che egli, rappresentandosi tale evento, ne accetti il rischio, secondo lo schema riferibile al c.d. dolo eventuale.
Sebbene, a tutta prima, il richiamo al compimento di un fatto “diretto” a cagionare il disastro possa far pensare a una pienezza volitiva, nell’agente, delle conseguenze di quel fatto, in realtà la dottrina prevalente ritiene sufficiente che il soggetto attivo si rappresenti il verificarsi del pericolo per la pubblica incolumità, e ne accetti l’eventualità, senza necessariamente volere che tale condizione si realizzi.
Un orientamento contrario viene però espresso da una parte della giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. I^, n. 41306/2009): in base a tale indirizzo si evidenzia che la tipizzazione codicistica richiede, per la sussistenza del reato di cui all’art. 434 c.p., che l'agente commetta "un fatto diretto a cagionare un crollo di una costruzione o di una parte di esso ovvero ad un altro disastro...", di guisa che, nella ipotesi in cui il fatto consumato sia stato posto in essere non già per conseguire questo risultato, e cioè un crollo rovinoso ovvero altro disastro, ma per conseguire altra finalità, viene a mancare non solo l'elemento oggettivo del reato, che per la sua configurazione richiede, appunto, "un fatto diretto a cagionare" crolli o disastri, ma anche l'elemento psicologico del reato, poichè il dolo delineato nella ipotesi descritta dalla fattispecie criminosa in esame comporta la volontà diretta a cagionare detto crollo od altro disastro. In altri termini, è possibile ipotizzare la tipologia teoretica del dolo eventuale soltanto allorchè la legge non richieda, espressamente, che il soggetto agente si sia determinato alla consumazione della condotta con un determinato fine. Il che, conclude la Suprema Corte, non si verifica nel caso in esame, laddove la condotta del soggetto attivo è necessariamente “diretta” verso un determinato scopo. In base a tale orientamento, quindi (v. sentenza citata) si esclude che possa rispondere del delitto in esame colui il quale provochi l’esplosione di una bombola di gas, da cui consegua il crollo di uno stabile, aprendone l’erogatore allo scopo di togliersi la vita, indipendentemente dal fatto che egli abbia o meno accettato l’eventualità che tanto determinasse un pericolo per l’incolumità pubblica; e coerentemente, in altre pronunce, si afferma che ne possa rispondere colui che faccia esplodere il gas contenuto in due bombole al fine di determinare il crollo di un edificio (Cass. I^, n. 4871/1987).
Altra parte della giurisprudenza di legittimità ritiene invece che il dolo eventuale sia compatibile con la figura di reato in esame: in particolare, Cass. V^, n. 43253/2009, in un’ipotesi di crollo doloso, annulla con rinvio una sentenza in cui la Corte di Appello aveva, secondo i ricorrenti, ritenuto la sussistenza del dolo eventuale, da loro ritenuto incompatibile con il reato di crollo doloso posto che la norma incriminatrice prevede espressamente il compimento di "atti diretti"; la Cassazione ha per converso affermato che i giudici di merito non avevano affatto motivato in ordine al dato soggettivo e che pertanto si poneva, da parte loro, la necessità di individuare l'elemento soggettivo del crollo, quantomeno in forma eventuale, così implicitamente ritenendo la configurabilità di detto delitto pur in assenza di dolo diretto. È di tutta evidenza che in tale pronunzia si afferma indirettamente il principio secondo cui il riferimento della norma al compimento di un fatto diretto a cagionare un crollo o un disastro non esclude che il verificarsi dell’evento possa essere semplicemente rappresentato e accettato, e non necessariamente voluto, dal soggetto attivo.
In realtà, la questione può trovare una sua chiave di lettura nel fatto che per i delitti di disastro, al pari di quelli di incendio, l’art. 449 c.p. prevede l’ipotesi punita a titolo di colpa.
In tal modo, il legislatore ha chiaramente inteso, per tali categorie di reati, “coprire” interamente l’area delle possibili varianti dell’elemento soggettivo, prevedendo quindi che i reati di incendio o di disastro siano puniti –con diversa gradazione di pena- sia a titolo di dolo che a titolo di colpa, nelle diverse manifestazioni che tali nozioni comprendono.
In tale quadro, è di intuitiva evidenza che, se si è inteso perseguire penalmente il disastro o l’incendio a titolo di colpa (e, dunque, eventualmente anche di colpa cosciente), la forma dolosa di tale reato non può escludere in alcun modo l’ipotesi in cui l’evento-disastro (o l’evento-incendio) sia non già direttamente voluto, ma invece accettato come possibile effetto della condotta, la quale quindi è perseguibile anche a titolo di dolo eventuale.
Il crinale tra dolo eventuale e colpa cosciente, del resto, è da tempo considerato dalla giurisprudenza di legittimità anche per quanto concerne l’altra categoria di reati di cui all’art. 449 c.p., ossia i delitti di incendio, onde stabilire se si versi in ipotesi di incendio doloso o, in alternativa, di incendio colposo (sul punto, cfr. Cass. I^, n. 2297/76). Il che conferma indirettamente che la nozione di dolo eventuale deve ritenersi utilizzabile anche per ciò che riguarda i delitti di disastro.
È ben vero che, come si è avuto modo di osservare, altro è l’evento di danno contemplato nel capoverso dell’art. 434 c.p., ed altro è l’evento di pericolo (per la pubblica incolumità) di cui al primo comma. Ma, se quanto si è detto a proposito del dolo eventuale vale per il prodursi dell’evento di danno (ossia per il disastro), deve richiamarsi il concetto –anch’esso espresso in precedenza- secondo il quale tra i due eventi non vi è, a ben vedere, un rapporto di alternatività e di reciproca esclusione, ma piuttosto di progressività: nel senso che l’evento di pericolo di cui al comma primo attiene a una condizione di pericolosità che è suscettibile di svilupparsi nell’evento di danno di cui al comma secondo, attraverso il prodursi dell’evento naturalistico in cui indefettibilmente si riconosce la nozione di disastro. Per cui deve bensì concludersi per l’inclusione, nel dolo dell’offesa, della rappresentazione, da parte dell’autore, dell’evento di pericolo di cui al primo comma in cui consiste il bene interesse protetto; ma non è invece necessaria la diretta volizione di tale evento, bastando che esso sia accettato quale effetto eventuale dell’azione od omissione.
In tale chiave, non può che concludersi che l’espressione “commette un fatto diretto a cagionare...” è da intendersi non già come necessariamente correlata alla volizione del soggetto attivo, ma come riferita all’oggettiva direzione del fatto da questi compiuto: l’autore deve, in altre parole, rappresentarsi e volere la sua condotta e il fatto da lui commesso; ma la “direzione” a cagionare il disastro sarà frutto dell’intrinseca ed oggettiva natura del fatto e della sua idoneità a cagionarlo, e non necessariamente della volizione del soggetto attivo; il quale tuttavia si rappresenterà, ed accetterà, che il fatto da lui commesso possa portare al verificarsi del disastro.
Tale conclusione può essere rapportata all’ipotesi di concorso di persone nel reato, nel senso che, nel reato concorsuale, inteso come reato a struttura unitaria, le condotte sono nello stesso tempo, sotto l'aspetto oggettivo, proprie a ciascuno dei concorrenti e a tutti gli altri perché collegate da un nesso penalistico mentre, sotto l'aspetto soggettivo, l'attività di vari concorrenti deve essere animata dalla concorrente volontà di ciascuno di dare un proprio apporto di ordine materiale o psicologico a tutte od alcune soltanto delle fasi di organizzazioni ed esecuzioni dell'Azione criminosa, anche sotto il profilo della determinazione o del rafforzamento della stessa, trovandovi, quindi, impresso anche il dolo eventuale (Cass. II^, n. 12463/1986). Di tal che, per ravvisarsi il dolo nel contributo causale del concorrente nel reato in esame:
• dovrà tenersi conto che, secondo i principi generali in materia, la volontà di concorrere non presuppone necessariamente un previo accordo o, comunque, la reciproca consapevolezza del concorso altrui, essendo sufficiente che la coscienza del contributo fornito all'altrui condotta esista unilateralmente, con la conseguenza che essa può indifferentemente manifestarsi o come previo concerto o come intesa istantanea ovvero come semplice adesione all'opera di un altro che rimane ignaro (Cass. SS.UU., n. 31/2000; Cass. VI^, n. 1271/2004);
• la coscienza e volontà del proprio contributo causale si avrà senz’altro con riferimento alla partecipazione del concorrente alla condotta materiale, o all’agevolazione morale della condotta altrui (ossia al contributo, nelle sue varie forme possibili, nel compimento di fatti diretti a cagionare un disastro), mentre con riferimento all’evento di pericolo di cui al comma I° sarà sufficiente che il concorrente accetti l’eventualità che il proprio contributo comunque fornito a detta condotta possa determinare o agevolare quell’evento.

• Elemento materiale nel comma 2° : l’evento di danno, con specifico riguardo al disastro ambientale –
Si è detto in precedenza che Cass. V^, n. 40330/2006, a proposito di un caso di disastro innominato ambientale, afferma che “si identificano danno ambientale e disastro qualora l'attività di contaminazione di siti destinati ad insediamenti abitativi o agricoli con sostanze pericolose per la salute umana assuma connotazioni di durata, ampiezza e intensità tale da risultare in concreto straordinariamente grave e complessa, mentre non è necessaria la prova di immediati effetti lesivi sull'uomo”.
Qui si delinea il concetto di disastro per come è stato già in precedenza prefigurato: ossia il prodursi di un evento naturalistico di diffusività, intensità e durata tali, che –come affermato da altra giurisprudenza di legittimità- sia in grado di esporre a pericolo, collettivamente, un numero indeterminato di persone, e sia straordinariamente grave e complesso ma non eccezionalmente immane.
Può desumersi da queste indicazioni giurisprudenziali che i contorni del disastro riconducibile alla nozione evocata dal comma secondo dell’art. 434 c.p. descrivano il prodursi di un evento di danno, di tipo naturalistico (e quindi con modificazione della realtà materiale), causalmente dipendente dalla condotta dell’agente, straordinariamente grave e complesso benché non eccezionalmente immane, essendo necessario e sufficiente che le sue grandi dimensioni e la sua notevole intensità espongano a pericolo, collettivamente, un numero indeterminato di persone.
Perciò, il disastro ambientale riconducibile al comma secondo della norma in esame consisterà, quale evento naturalistico, in una modifica di grandi proporzioni della realtà esterna (es. a carattere chimico –è il caso dell’inquinamento- o anche fisico), che interessi siti destinati alla vita dell’uomo (es. insediamenti abitativi) o utilizzati per attività necessarie alla vita dell’uomo (es. insediamenti agricoli); che abbia grande durata, ampiezza e intensità (ad esempio, nel caso dell’inquinamento ambientale, con l’utilizzo o comunque la manipolazione o dismissione di grandi quantità di sostanze pericolose per la salute umana, protratti nel tempo e tali da coinvolgere ampie porzioni di suolo e/o di atmosfera); che metta a repentaglio la vita e/o la salute di un numero indeterminato di persone (ciò che si verifica, in caso di inquinamento ambientale, quando le sostanze inquinanti impiegate, manipolate o dismesse siano in grado di determinare etiologicamente una condizione di rischio per le popolazioni interessate all’utilizzo, a fini abitativi o agricoli, dei siti contaminati).
In questo senso, come si è detto –e come in particolare è opportuno ricordare in relazione all’oggetto del presente processo- è stata ravvisata la sussistenza del disastro ambientale nel caso di accumulo sul territorio e sversamento nelle acque di ingenti quantitativi di rifiuti speciali altamente pericolosi (Cass. III^, n. 9418/2008).

• L’elemento soggettivo nell’aggravante di cui al comma 2° -
Non può a questo punto che ribadirsi, con riferimento all’elemento soggettivo del reato e in riferimento all’ipotesi aggravata di cui al comma secondo, che il soggetto attivo deve sicuramente avere coscienza e volontà di compiere atti diretti alla verificazione del disastro (nella nozione di quest’ultimo che si è cercato di illustrare supra); mentre, secondo l’impostazione seguita dal Collegio, è sufficiente che egli si rappresenti l’eventualità che il disastro si verifichi e che accetti tale eventualità, ossia agisca, quanto meno, a costo di provocare il disastro.
Ad esempio, sul piano del delitto dedotto in contestazione (disastro ambientale aggravato, mediante inquinamento), è necessario e sufficiente che il soggetto attivo agisca con dolo intenzionale per quanto concerne il compimento della sua condotta materiale, attiva od omissiva, che sia –ed abbia, pertanto, la coscienza e volontà di compiere i fatti che siano, sul piano oggettivo, diretti al prodursi dell’evento di danno costituito dal disastro-; ed è necessario e sufficiente che egli agisca con dolo eventuale per quanto concerne gli effetti della sua condotta, ossia, quanto al comma secondo, rappresentandosi l’eventualità che essa cagioni un disastro ed accettando, quanto meno, il verificarsi di tale eventualità.
Per l’ipotesi di concorso di persone nel reato, analogamente, dovrà sussistere –per quanto detto- il dolo intenzionale del concorrente nel fornire il suo contributo (materiale o morale, determinante o semplicemente agevolativo, frutto di accordo o di successiva e autonoma del singolo concorrente) alla realizzazione dei fatti diretti a cagionare il disastro; mentre basterà il dolo eventuale (ossia l’accettazione, e non necessariamente la diretta volontà) del prodursi dell’evento-disastro quale conseguenza del proprio contributo.

• Punto conclusivo di situazione con riguardo al disastro ambientale da inquinamento, aggravato ex art. 434 c. 2 c.p.–
Schematizzando, quindi, si possono trarre dalla disamina che precede le indicazioni necessarie per individuare a quali condizioni il delitto di disastro ambientale da inquinamento, aggravato ex comma 2° dell’art. 434 c.p., possa dirsi realizzato, ed a quali condizioni si possa pervenire alla sua attribuzione soggettiva.
• soggetto attivo può essere chiunque nella forma della condotta attiva; quanto alla condotta omissiva dovrà aversi riguardo alla presenza di posizioni di garanzia che determinino un dovere giuridico di agire, fatti salvi peraltro, in questa ipotesi, i possibili casi di concorso dell’extraneus;
• la condotta potrà essere attiva od omissiva, trattandosi di reato a forma libera, e consisterà nel compimento di fatti diretti a provocare un disastro;
• il concorrente nel reato, rispetto alla condotta potrà fornire il proprio contributo in qualunque forma (materiale o morale, decisivo o agevolativo, frutto di accordo o di mero inserimento nella serie causale, anche in modo autonomo) nel compimento dei fatti diretti a provocare il disastro;
• l’evento (di danno, trattandosi dell’ipotesi di cui al secondo comma) dovrà consistere in un disastro: i cui contorni, nell’ambito dell’inquinamento ambientale, si sono individuati in un evento naturalistico di grandi proporzioni, consistente nell’utilizzo, nella manipolazione o nella dismissione di grandi quantità di sostanze pericolose per la salute umana, che interessi siti destinati alla vita dell’uomo o insediamenti agricoli, e che abbia durata, ampiezza e intensità tali da mettere a repentaglio la vita e/o la salute di un numero indeterminato di persone; viceversa, l’ evento (di pericolo) di cui all’ipotesi contemplata al primo comma, sarà costituito da una condizione di concreta possibilità di esposizione della collettività al verificarsi di un disastro nei termini appena delineati, pur in assenza di un mutamento naturalistico nella realtà .
• il nesso causale si avrà quando le sostanze inquinanti impiegate, manipolate o dismesse attraverso la condotta del soggetto attivo siano in grado di determinare etiologicamente una condizione di rischio per le popolazioni interessate all’utilizzo, a fini abitativi o agricoli, dei siti contaminati;
• il dolo sarà intenzionale o diretto con riguardo al fatto oggettivamente diretto a provocare il disastro, nel senso che il soggetto attivo deve avere coscienza e volontà di tale fatto, nel quale consiste la sua condotta attiva o omissiva (e il concorrente nel reato deve avere coscienza e volontà di fornire il proprio contributo, in qualunque forma esso si manifesti e anche senza previo accordo, al compimento del fatto o dei fatti diretti a provocare il disastro) ; mentre potrà essere anche dolo eventuale con riferimento all’evento etiologicamente collegato a quella condotta, nel senso cioè che sarà sufficiente che il soggetto attivo si rappresenti l’eventualità di cagionare , con la sua condotta, un disastro ambientale mediante inquinamento, ed accetti nondimeno tale eventualità; e, quanto al concorrente nel reato, basterà che egli si rappresenti e accetti l’eventualità che con il proprio contributo egli determini o agevoli, in qualunque forma, il prodursi del disastro.


LE NOZIONI DI DISASTRO AMBIENTALE (ART. 434 C. 2 C.P.) E DI PERICOLO PER LA PUBBLICA INCOLUMITA’ (ART. 434 C. 1 C.P.),
IN RELAZIONE ALL’OGGETTO DEL PROCESSO
E ALLE RELATIVE RISULTANZE PROBATORIE
All’esito delle considerazioni tecnico-giuridiche che precedono, e che costituiscono doverosa premessa per la verifica della fondatezza dell’imputazione (con riferimento ai capi oggetto di addebito ex art. 434 c. 2 c.p.), si pone un problema di natura metodologica, riferito alla verifica in concreto della sussistenza o meno degli estremi del disastro ambientale o, quanto meno, del pericolo per la pubblica utilità, relativamente ai luoghi interessati dalle condotte contestate a tale titolo.
Ciò per l’ovvio rilievo che, al fine di verificare la fondatezza o meno delle accuse, assume carattere prioritario –e potenzialmente assorbente di ogni altra questione- verificare se, alla luce delle risultanze istruttorie, si sia verificato un evento di danno, a carico dei siti interessati, rapportabile alla nozione di disastro ambientale aggravato, riconducibile all’art. 434 c. 2 c.p., per come essa è stata dianzi delineata.
In caso affermativo, è possibile e necessario porsi il problema delle singole condotte e delle singole posizioni degli imputati, del contributo causale da parte di ciascuno di essi, dell’elemento soggettivo nella specie configurabile in capo a ognuno di loro; ciò anche nell’ovvia considerazione che, essendo il delitto di disastro ambientale punito sia a titolo di dolo (art. 434 c. 2 c.p.) che a titolo di colpa (art. 449 c.p.), l’eventuale sussistenza dell’evento di danno che accomuna le due fattispecie pone la necessità di esaminare, in relazione a ciascuna delle posizioni in esame, non solo se esso sia stato causalmente riconducibile ad alcuno degli imputati, ma altresì se la condotta di ciascuno dei soggetti attivi sia qualificabile come dolosa (nei termini già esaminati) ovvero colposa (con la conseguenza che, in tale ultima ipotesi, gli addebiti riqualificati ex art. 449 c.p. dovrebbero dichiararsi riferiti a reati estinti per maturata prescrizione).
In caso negativo, invece (ossia ove si pervenga all’esclusione della configurabilità del disastro ambientale aggravato ex art. 434 c. 2 c.p.), si pone il problema di verificare se sussista l’evento di pericolo di cui al comma 1° dell’art. 434 c.p., ossia se in esito alle condotte contestate sia configurabile, in base agli elementi probatori raccolti, pericolo per la pubblica incolumità, secondo la nozione emersa anch’essa dalle considerazioni svolte alle pagine che precedono. Nel caso in cui venga riconosciuta la sussistenza di pericolo per la pubblica incolumità, si porrebbe l’ulteriore problema di stabilirne la riferibilità soggettiva –in termini di condotta e nesso causale, nonché di elemento soggettivo- se non altro al fine di escludere il proscioglimento nel merito degli imputati di ciò ritenuti responsabili, atteso che anche il reato p. e p. dall’art. 434 comma 1° c.p., ove ritenuto sussistente, sarebbe estinto per maturata prescrizione.
Perciò, la mancanza, insufficienza o contraddittorietà delle prove sia del disastro ambientale (sotto il profilo dell’evento di danno), che del pericolo per la pubblica incolumità (sotto il profilo dell’evento di pericolo), assumerebbe carattere assorbente di ogni altra questione (ivi compresa, fra le altre, quella dell’inutilizzabilità di alcuni atti nei confronti di alcuni imputati, già oggetto di due successivi provvedimenti del Collegio diversamente composto) e, determinando il venir meno di un elemento costitutivo dei reati ipotizzabili, implicherebbe necessariamente l’assoluzione di tutti gli imputati dagli addebiti loro contestati in rubrica ex art. 434/2 c.p., per insussistenza del fatto; resterebbe infatti privo di rilievo l’approfondimento di ogni questione attinente alla riferibilità soggettiva delle condotte, all’elemento soggettivo dei soggetti attivi e –ciò che, come si è appena visto, nell’ambito del processo ha assunto rilievo- all’utilizzabilità o meno di elementi probatori, in generale o con riferimento a singoli imputati.

Fatta questa premessa metodologica, conviene appuntare l’attenzione sui siti interessati alle condotte in contestazione, e procedere per ognuno di essi alla verifica degli esiti probatori meritevoli di esame, in modo da stabilire se per alcuno di essi siano o meno sussistenti le nozioni di cui sopra, riferite all’evento del delitto e delineate alla stregua dell’analisi tecnico-giuridica che precede.

Area IPODEC – Il primo dei siti presi in considerazione dall’imputazione (vds. capo A1) è quello corrispondente al piazzale di stoccaggio provvisorio dei rifiuti denominato Area IPODEC, presso la quale, secondo la contestazione mossa agli imputati DUVIA, BERTOLLA e COZZANI, sarebbero stati interrati e smaltiti rifiuti speciali e speciali tossico-nocivi (fanghi, ceneri e/o scorie, rifiuti di demolizioni navali, fusti contenenti oli lubrificanti, rifiuti di stoccaggio di prodotti petroliferi, solventi ecc.) in un’area definita altamente vulnerabile (per la presenza di fonti idriche in prossimità alla stessa) e permeabile (con particolare riguardo al piazzale di stoccaggio provvisorio); in tal modo sarebbe stata realizzata una discarica abusiva e incontrollata.
L’area, nel periodo considerato, era in uso alla Contenitori Trasporti S.p.A., facente capo al Duvia.
Conviene esaminare direttamente le risultanze probatorie in ordine non solo alla presenza e alla tipologia di inquinanti nel sito, ma anche e soprattutto all’eventuale configurabilità, a causa di dette sostanze inquinanti, del disastro ambientale e/o del pericolo per la pubblica incolumità. Ciò in quanto tale esame deve ritenersi prioritario (e, per quanto si è detto, potenzialmente assorbente) rispetto alle questioni inerenti all’evoluzione “storica” della gestione dell’area, questioni che assumerebbero rilevanza solo laddove l’evento di danno o di pericolo correlato alle ipotesi di reato configurabili risulti comprovato, onde stabilire la riferibilità soggettiva di detto evento e l’elemento psicologico nei soggetti attivi.
Sotto il profilo dell’accertamento sullo stato dei luoghi, la fonte di prova principale è costituita dall’attività peritale espletata in incidente probatorio dal collegio di periti nominati dal G.i.p. in sede, costituito dal prof. Sanna, dal dott. Iacucci e dal dott. Floccia; nonché dalle dichiarazioni rese dai periti sia in incidente probatorio, che in sede di dibattimento, ed anche dagli elaborati e dalle dichiarazioni dei consulenti tecnici nominati dal PM e dalle parti private.
La perizia collegiale disposta dal G.i.p. ha sicuramente consentito di accertare che nel sito adibito a discarica erano presenti rifiuti potenzialmente nocivi, in grande quantità e varietà, in larga parte mediante interramento/abbancamento. Erano assenti misure di protezione dell’ambiente.
La descrizione dello stato dei luoghi viene fornita nella perizia realizzata in sede di incidente probatorio e corredata di planimetrie, analisi, rilievi fotografici.
Sono state fra l’altro eseguite, sia nel corso delle indagini che nell’ambito delle attività peritali, rilevazioni a mezzo scavi, che hanno consentito di portare alla luce non solo sostanze riconducibili a rifiuti di vario genere (tra cui contenitori di oli lubrificanti), ma anche la presenza, nel terreno, di sostanze di origine petrolifera, fanghi, ceneri, scorie, morchie di verniciatura e residui di sverniciatura, sostanze catramose (v. in part. Libro IX° perizia, pag. 1557). La profondità del terreno impregnato da tali sostanze è stata indicata in circa 10 metri.
Si rimanda alla relazione peritale (in particolare ai libri V° e IX°) per quanto attiene agli elementi descrittivi dello stato dei luoghi e delle indagini ivi espletate.
Ciò posto, a prescindere dalla riferibilità soggettiva delle attività di abbandono e interramento dei rifiuti ritenuti nocivi, si tratta di stabilire se tale attività, sicuramente massiccia ed estesa all’area di riferimento, abbia determinato condizioni rapportabili alle nozioni di disastro ambientale o quanto meno di pericolo per la pubblica incolumità. E ciò, con specifico riferimento alla compromissione dell’ecosistema nelle sue componenti essenziali (acqua, aria, suolo).
Il prof. Sanna, nel corso dell’esame in sede di incidente probatorio, ha affermato che, in assenza di impermeabilizzazioni sottostanti, gli inquinanti che impregnavano il terreno si sarebbero necessariamente riversati nella falda acquifera sottostante l’area. Tuttavia, al di là di questa deduzione, l’attività peritale non ha eseguito accertamenti mirati né a verificare se vi fosse già inquinamento della falda, né a prefigurare il percorso degli inquinanti in direzione della falda, e quindi a stabilire se quest’ultima sarebbe stata a rischio concreto di inquinamento (vds. esame perito inc. prob. in data 18.9.1998, pp. 26 e ss.). Ed anzi, nel corso dello stesso esame, il prof. Sanna ha affermato che “… per bonifica si può intendere soltanto la rimozione di tutti i rifiuti presenti, di tutti i rifiuti e di tutto il materiale che è contaminato sottostante i rifiuti fino ad arrivare a, se c’è, la falda inquinata (…), però questo qui non è stato accertato (...)” (ud. 18.09.1998, pag. 29). Dal che si è giustamente dedotto che alcun accertamento era stato condotto in ordine all’esistenza stessa di una falda sottostante all’area in questione.
Per ciò che concerne l’acqua, dunque, gli esiti degli accertamenti peritali non hanno portato ad alcun elemento di certezza, non solo in ordine all’inquinamento o al pericolo di inquinamento delle falde acquifere sottostanti il sito, ma nemmeno in ordine alla stessa esistenza di falde acquifere –e dunque, evidentemente, alla possibilità che potesse verificarsi o si fosse già verificata una contaminazione di acque suscettibili di utilizzo per l’uomo, ovvero destinate al consumo diretto o all’assorbimento da parte di animali o vegetali destinati al consumo umano, eziologicamente riconducibile ai rifiuti interrati e giacenti nell’area IPODEC-.
Sul piano probatorio, ciò ha indotto il P.M. a sollecitare il completamento dell’indagine peritale con la formulazione dei quesiti di cui alla nota in data 28.10.98, con specifico riferimento all’accertamento delle caratteristiche e della direzione del flusso delle acque sotterranee sottostanti all’area IPODEC mediante l’approntamento di un modello idrogeologico dell’area basato su appositi piezometri e prove idrogeologiche specifiche, quanto meno con la realizzazione e il monitoraggio di un piezometro, in corrispondenza del sondaggio n. 14 indicato nella relazione della SALT (elaborato A2 dic. 94). All’esito del contraddittorio, il GIP disponeva integrarsi il quesito n. 8 –riferito alla compromissione ambientale del sito- con la richiesta al collegio peritale di verificare l’eventuale presenza di inquinanti nelle falde subito a valle del sito IPODEC (vds. verbale udienza 28.9.1998). Successivamente il collegio peritale veniva integrato dal geologo dott. Ghione Giovanni Carlo (udienza 15.1.1999).
Tuttavia, in relazione ai termini previsti per l’espletamento dell’attività d’indagine, l’attività peritale integrativa non veniva finalizzata.
La valutazione, da parte del collegio peritale, delle acque sotterranee all’area IPODEC -sulla base della quale si sarebbe potuto trarre elementi nel senso della presenza o del pericolo dell’inquinamento di acque destinate ad uso umano, in dipendenza della presenza di sostanze inquinanti nell’area IPODEC- non ha quindi dato risultati corrispondenti all’ipotesi accusatoria.
Ne è testimonianza la deposizione del perito dott. Floccia, che si è occupato in particolare dell’inquinamento idrico. Il perito, esaminato in dibattimento all’udienza del 31.1.2006, non è stato in grado di fornire elementi precisi circa la presenza di sostanze inquinanti nelle acque sottostanti l’area IPODEC.
In proposito è comunque interessante analizzare le dichiarazioni rese dal consulente tecnico dott. Sommaruga, nominato dal P.M. presso il Tribunale di Asti all’origine delle indagini sulla vicenda per cui è processo, e successivamente nominato anche dal P.M. in sede nell’ambito dell’incidente probatorio.
E’ ben vero che il dott. Sommaruga ha affermato che il piazzale IPODEC era in origine un impluvio naturale, in cui scorreva un corso d’acqua –il torrente Pagliari- poi coperto completamente di rifiuti (“originariamente tutta quest’area di piazzale era ed è ancora l’alveo di un torrente che scorre, con tutta l’acqua che scorre di sotto – era vistosamente impregnata di petrolio e di idrocarburi”: p. 35 trascr. Ud. 17.4.2007), e che a suo dire durante gli scavi effettuati nell’ambito della sua attività di consulente “si vede proprio scorrere in grande quantità l’acqua sotterranea al di sotto, dentro uno di questi scavi dell’area IPODEC, a testimonianza che quello è proprio sede del subalveo di un vecchio torrente che è stato completamente riempito e annullato” (pag. 42, ibidem).
Tuttavia lo stesso dott. Sommaruga, in sede di controesame, non è stato in grado di riferire in ordine all’effettuazione di un piano di caratterizzazione dell’area IPODEC, né in ordine all’eventuale inquinamento della falda acquifera in connessione con la presenza di ulteriori possibili fattori inquinanti, come altre discariche, insediamenti industriali ecc. (udienza 18.9.2007, pp. 53 e ss.).
E, del resto, le rilevazioni eseguite in sito dal consulente si sono limitate a un numero contenuto di scavi, tale da non poter offrire nessun elemento circa la potenzialità diffusiva, per via idrica, dei fattori inquinanti di cui pure è stata riscontrata la presenza nel terreno.
A tale riguardo vi è, anzi, da osservare, che la Nota geologica-idrogeologica sintetica relativa al promontorio orientale del Golfo di La Spezia, del dott. S. Cialdini (prodotta dalla difesa Motta e richiamata nelle note di consulenza del dott. Claudio Ferri, consulente della difesa), afferma che “L’inquadramento geologico e idrogeologico della zona immediatamente circostante le discariche (…) permette di escludere una circolazione di acque nel sottosuolo se non limitatamente alle zone superficiali particolarmente fratturate e a seguito di periodi particolarmente piovosi. Comunque anche in tali condizioni la circolazione idrica non permette di identificare una falda acquifera”.
Vi è da aggiungere che la stessa relazione di consulenza redatta dal dott. Sommaruga (cfr. vol. F 46.1, pp. 29-30), dando conto per l’area IPODEC di una situazione di smaltimento irregolare di rifiuti, mediante interramento o costituzione di riempimenti e terrapieni (con varie tipologie di rifiuti, comprensive di idrocarburi) e di un notevole impatto sull’idrografia e idrogeologia preesistente, in considerazione anche della presenza di alcuni pozzi privati ad uso irriguo a valle, in direzione del flusso idrico sotterraneo, tuttavia non offre risposta completa ai quesiti a suo tempo proposti dall’ufficio di procura che gli conferì originariamente l’incarico (vds. in particolare quesiti nn. 3 e 4 di cui al verbale di conferimento incarico in data 25.10.96, Procura della Repubblica di Asti), a causa dei limiti di tempo, rinviando all’integrazione che sarebbe stata offerta dai risultati acquisiti dai periti nominati dal GIP in sede di incidente probatorio: risultati che, come si è visto, non sono approdati ad alcun elemento di obiettivo riscontro in ordine all’effettività dell’impatto inquinante sulle acque del sottosuolo, alla stessa presenza o meno di falde sotterranee, all’effettivo coinvolgimento di corpi idrici o fonti idriche suscettibili di utilizzo umano diretto o indiretto.
In sostanza, pur volendosi ammettere che i rifiuti interrati nell’area IPODEC abbiano inquinato acque di scorrimento sottostanti, nemmeno l’attività di consulenza del dott. Sommaruga ha consentito di stabilire se tale presenza di elementi di contaminazione nelle acque sia confluita o potesse, concretamente e oggettivamente, confluire in corpi idrici destinati, direttamente o indirettamente, all’utilizzo da parte dell’uomo, in specie della popolazione residente; né tanto meno essa ha consentito di stabilire il grado di diffusività che tale inquinamento avrebbe potuto determinare o avrebbe determinato, e ancor meno se tale inquinamento creasse una condizione di pericolo, o addirittura di danno, a carico della pubblica incolumità, di proporzioni vaste e imponenti come indica la nozione di disastro ambientale di cui si sono in precedenza delimitati i contorni.
Neppure le deposizioni testimoniali consentono di pervenire a diverse conclusioni.
Il teste Castiglia, nel corso della sua ampia deposizione, confermando quanto già emerso circa il diretto interramento dei rifiuti e l’assenza di protezioni o canalizzazioni –a parte una canaletta realizzata in cemento nei primi anni 90, per evitare che le acque del Rio Pagliari continuassero a entrare nel piazzale-, nel corso della deposizione del 15.1.2009 ha riferito che durante gli scavi nel sito vi era una risalita di acqua corrente a due o tre metri di profondità, che egli riteneva trattarsi di una falda, o comunque di uno scorrimento sub alveo, evidenziando che il rio Pagliari sbocca al mare. Nulla però è stato in grado di riferire il teste né in ordine alle sostanze inquinanti presenti in queste acque di scorrimento, né egli poteva fornire elementi di certezza circa il fatto che esse costituissero una falda e che defluissero in mare, né –e soprattutto- sul grado di inquinamento che esse eventualmente convogliavano in mare o presso luoghi interessati dalla presenza umana, in tal modo non fornendo di fatto alcun elemento oggettivo circa il verificarsi di condizioni rapportabili all’evento di pericolo o di danno di cui all’art. 434 commi 1 e 2 c.p..
A ciò va aggiunto che, all’udienza in data 31.1.2006, il perito dr. Floccia ha dichiarato che nelle acque del Rio Pagliari, che sottopassa l’area IPODEC, non sono stati prelevati campioni perché “risultava asciutto” (pag 73 trascr.).
E’ poi di particolare importanza quanto precisato dal prof. Sanna a proposito della riferibilità dell’inquinamento delle acque asseritamente prodotto dalla IPODEC: sulla scorta di quanto già precisato nella stessa perizia (pag. 1542), il perito ha dichiarato espressamente che per l’area IPODEC non è possibile rilevare una connessione di causa-effetto univoca ed esclusiva tra l’inquinamento rilevato sui pozzi relativi a detta area e la situazione di degrado e inquinamento riscontrata nell’area stessa; e ciò a cagione della presenza, nella zona –e segnatamente sulle falde superficiali dell’abitato di Pagliari- altre attività di smaltimento di rifiuti e altre attività industriali (cfr. deposizione prof. Sanna, udienza dibattimentale 27.9.2005, pagg. 133-134).
Sul piano dell’inquinamento del suolo, se è stato acclarato che esso è sicuramente avvenuto nel corso degli anni (e prescindendo dall’attribuibilità soggettiva dell’abbancamento degli inquinanti, dalla presenza o meno in zona di altri possibili fattori di inquinamento, dall’illegittimità o addirittura dall’illiceità delle operazioni di interramento dei rifiuti in un’area adibita a stoccaggio provvisorio degli stessi), ciò che è rimasto sprovvisto di prova è se tale inquinamento del suolo abbia determinato l’insorgere di condizioni di pericolo per la pubblica incolumità, o di condizioni tali da ingenerare un rischio immediato per la salute delle persone.
Non ha infatti trovato alcun sostegno probatorio l’ipotesi di disastro ambientale in dipendenza di un utilizzo del terreno inquinato per scopi agricoli, o di allevamento, o comunque connessi a possibili utilizzi del suolo idonei a determinare pericoli per la popolazione residente o comunque potenzialmente esposta. L’area, in definitiva, non è risultata mai adibita a impieghi che coinvolgessero direttamente o indirettamente le persone, o che implicassero direttamente o indirettamente il contatto delle persone con sostanze nocive ivi abbancate; e ciò vale anche per quanto concerne le aree immediatamente viciniori e ipoteticamente suscettibili di risentire dei fattori inquinanti presenti nel sottosuolo dell’area IPODEC.
Ancor meno ha trovato conforto probatorio l’ipotesi di inquinamento atmosferico della componente aria: non v’è infatti traccia di elementi probatori inerenti a esalazioni provenienti dai rifiuti presenti nel sito e tali da determinare, o da poter determinare, esposizione della popolazione a rischi concreti per la salute.
Ciò sarebbe di per sé già sufficiente a escludere, quanto meno con riferimento al piazzale dell’area IPODEC, il raggiungimento della prova in ordine al verificarsi di un disastro ambientale, o anche solo di una situazione di pericolo per la pubblica incolumità, come richiesto dal thema decidendum.
Deve sul punto esprimersi concordanza con quanto affermato dal consulente tecnico della difesa Duvia, dott. Iacopo Tinti, quando nelle sue note di consulenza egli osserva che “per poter attribuire la causa di fonte inquinante ad un materiale/rifiuto interrato, in assenza di sistemi di isolamento artificiale, dovrebbe essere provato che le sostanze in esso contenute siano in concentrazioni ed in forme chimiche tali da poter essere veicolate nelle matrici ambientali aria/suolo/acque superficiali e sotterranee. (…) Parimenti deve esser dimostrato che in presenza di elementi e sostanze in forma chimica <> e dunque tali da poter essere veicolate nelle matrici ambientali, vi siano vie di comunicazione attive che ne consentano la trasmissione e la conseguente alterazione delle originarie caratteristiche qualitative (…). In mancanza delle verifiche come sopra schematizzate la presenza di un medesimo inquinante in un rifiuto e in un’acqua di falda non potrebbe esser considerata di per sé la prova dell’esistenza di un rapporto di causa-effetto” (pp. 1 e 2, note di consulenza dott. Tinti).
Si soggiunge peraltro che, anche una volta che ciò fosse comprovato, occorrerebbe poi eseguire, in base a dati oggettivi e non meramente ipotetici, una verifica, o quanto meno una prognosi circa il grado di diffusività della contaminazione e l’incidenza, reale o potenziale, della stessa sulla salute della comunità: tanto in funzione delle nozioni giuridiche in precedenza delineate a proposito dell’individuazione dell’evento di danno o di pericolo rispettivamente contemplati dal secondo e dal primo comma dell’art. 434 c.p..
Di questo target probatorio, come si è avuto modo di vedere, non è stato possibile raggiungere la certezza: se infatti la prova si è limitata, per un motivo o per l’altro, alla presenza di inquinanti in significativa quantità nel terreno dell’area IPODEC e, per quanto riferito dal dott. Sommaruga, anche nelle acque di scorrimento ivi rilevate, nulla è stato accertato circa la trasmissione delle sostanze inquinanti a fonti direttamente accessibili all’uomo, per usi alimentari, agricoli, di allevamento o comunque tali da poter provocare danni a suo carico; e tanto meno alcunchè è stato accertato in ordine al fatto che tale eventuale trasmissione di sostanze inquinanti sia pervenuta a un numero indeterminato di persone, in modo tale da provocare danni o rischi di rilevante diffusività per la loro salute.
Va da sé infatti che altro è la prova di un oggettivo stato di degrado del suolo da inquinamento di sostanze nocive, eventualmente riferibile alla normativa ambientale succedutasi negli anni e come tale qualificabile come contravvenzione ambientale, altro è la prova di effetti di tale inquinamento nel senso indirizzato dal tema di prova, in rapporto all’imputazione formulata: prova che, per quanto si è finora detto, è nella specie radicalmente mancata.
Sotto tale profilo non può convenirsi con la prospettazione dell’accusa, laddove essa fa riferimento al fatto che la stessa natura, quantità e qualità delle sostanze inquinanti basterebbe di per sé a conclamare, se non il disastro ambientale nella nozione come sopra delineata, quanto meno il pericolo per la pubblica incolumità.
Il richiamo alle considerazioni del collegio peritale nel Vol. IX° della relazione, contenuto nella memoria del P.M. depositata all’udienza del 19.10 2010, offre bensì contezza delle tipologie di rifiuti interrati nell’area, ma si dispone a qualificare detti rifiuti come altamente pericolosi in conseguenza del fatto che l’area stessa è priva di qualsivoglia requisito a salvaguardia dell’ambiente e della salute; qualifica i rifiuti in questione come potenzialmente pericolosi e la discarica realizzata nel sito come priva dei requisiti di legge, in quanto destinata ad accogliere i rifiuti in modo del tutto incontrollato, sì da rappresentare, “comunque”, un pericolo per l’ambiente e per l’igiene.
Non può sfuggire che tale procedimento logico, ove rapportato alla nozione di disastro ambientale e/o di pericolo per la pubblica incolumità che costituisce premessa alla presente trattazione, è viziato da elementi di apoditticità.
Ciò non è infatti sufficiente, per stabilire se vi sia stato “evento naturalistico di grandi proporzioni, consistente nell’utilizzo, nella manipolazione o nella dismissione di grandi quantità di sostanze pericolose per la salute umana, che interessi siti destinati alla vita dell’uomo o insediamenti agricoli, e che abbia durata, ampiezza e intensità tali da mettere a repentaglio la vita e/o la salute di un numero indeterminato di persone (nozione di disastro ambientale); né è sufficiente per stabilire se vi sia stata una “concreta possibilità di esposizione della collettività al verificarsi di un disastro nei termini appena delineati, pur in assenza di un mutamento naturalistico nella realtà” (nozione di pericolo per la pubblica utilità).
Ed invero, non essendo stata fornita prova alcuna in ordine al coinvolgimento, negli effetti inquinanti, di siti destinati alla vita dell’uomo, o comunque adibiti ad uso agricolo, né del numero di persone interessato a tali ipotetici effetti, né tanto meno della veicolazione almeno potenziale dei fattori inquinanti che si assumono pericolosi in luoghi, aree, bacini idrici, prodotti destinati all’uso o comunque alla vita della collettività, e quindi tali da esporre a concreto pericolo la collettività stessa, allora è di tutta evidenza che non può concludersi per la sussistenza di un disastro ambientale o di un pericolo per la pubblica incolumità in relazione al solo dato quantitativo o qualitativo dei rifiuti pericolosi abbancati: non basta, in altre parole, per ravvisare le suddette nozioni, il fatto che si tratti di rifiuti intrinsecamente pericolosi, scaricati nel suolo in modo indiscriminato e in massicce quantità.
Né tale conclusione può essere modificata in relazione alle dichiarazioni del dott. Sommaruga e agli esiti degli accertamenti da questi condotti a proposito dell’inquinamento di acque di scorrimento presenti in sito, difettando, per quanto detto, ogni specifica indagine circa il coinvolgimento nell’inquinamento di falde o bacini o corpi idrici destinati all’uso umano, o anche di aree di terreno utilizzate dall’uomo a scopi agricoli, e a maggior motivo circa l’estensione di tale ipotetico coinvolgimento.
Anche per quanto riguarda le deduzioni delle parti civili, si nota come sia stata concentrata l’attenzione soprattutto sull’intrinseca pericolosità dei rifiuti trovati nell’area in uso alla Contenitori e Trasporti, su una serie di vizi e irregolarità nella gestione dei rifiuti con presunti elementi di illegittimità in provvedimenti amministrativi emessi al riguardo, ma non sull’individuazione, in concreto, di effetti dannosi o pericolosi che coinvolgessero un numero indeterminato di persone per effetto dell’interramento dei rifiuti nell’area IPODEC.
Ad esempio, nella memoria conclusiva depositata dall’avv. Lamma, si riferisce la nozione di disastro ambientale alla durata in termini temporali e all’ampiezza in termini spaziali dell’attività di inquinamento, nel che –come appare evidente- difetta il necessario riferimento a un rapporto attuale o potenziale fra i rifiuti pericolosi abbancati e l’uso del terreno o delle acque da parte di una collettività indeterminata di persone, sì da metterne (o quanto meno da poterne mettere) in pericolo la salute o l’incolumità.
Parimenti, nella memoria depositata dall’avv. Orlandi, dopo un ampio excursus circa le vicende storico-burocratiche delle aree oggetto del processo, si fa richiamo, quanto all’area IPODEC, alla presenza di quantità ingenti di rifiuti pericolosi interrati, all’incidenza delle opere di abbancamento sul corso del rio Pagliari (di cui ha riferito il dott. Sommaruga), all’inammissibilità della discarica ivi realizzata e al conseguente “scempio ambientale” che ne è derivato: nozione atecnica che però, per come descritta, risulta del tutto estranea a quella di disastro ambientale, e anche a quella di pericolo per la pubblica incolumità, nei sensi dianzi proposti; e ciò in quanto, anche in questo caso, alcun elemento a sostegno della tesi accusatoria viene richiamato con riferimento agli effetti concreti, reali o potenziali, dell’inquinamento sulla popolazione, o alla diffusività dello stesso.
Nella memoria dell’avv. Arpesella, a riscontro della presenza di elementi fondanti per l’ipotesi di reato con riferimento all’area IPODEC, vengono enumerati la prova dell’utilizzo illecito della discarica; la prova della contaminazione del suolo o del sottosuolo; la prova costituita dall’altissima pericolosità dei rifiuti e alla loro efficienza causale determinante sulla contaminazione dei siti; la prova documentale della datazione dei rifiuti. Ma anche in questo caso non vi sono elementi riferibili alla concreta esposizione, o al concreto rischio di esposizione, di un numero indeterminato di persone a fattori inquinanti pericolosi, nei termini di cui alle richiamate nozioni di disastro ambientale o pericolo per la pubblica incolumità che si sono in precedenza tracciate.
Infine, nemmeno nella memoria depositata dall’avv. Busoni vengono evidenziati elementi indicativi di condizioni riferibili alle anzidette nozioni di disastro ambientale o di pericolo per la pubblica incolumità. A parte le denunciate carenze di autorizzazione alla gestione della discarica nei termini accertati, e i riferimenti alla presenza di sostanze inquinanti interrate –qualificabili in generale come rifiuti pericolosi o tossico-nocivi ai sensi del DPR 915/82- e di acque di scorrimento sotterranee nel sito (richiamando la già riferita deposizione del teste Castiglia) e alla riferibilità soggettiva dell’interramento e comunque del deposito dei rifiuti, la memoria non offre elementi di riscontro al concreto prodursi dell’evento di pericolo di cui al comma 1° dell’art. 434 c.p. (pericolo per la pubblica incolumità), né tanto meno dell’evento di danno di cui al comma 2° della stessa disposizione (disastro ambientale innominato). Anche in questo caso infatti, pur dandosi conto di condizioni di inquinamento del sottosuolo e richiamandosi le condizioni inquinanti delle acque di scorrimento, non è dato rinvenire alcun riferimento specifico e concreto agli effetti dannosi o pericolosi che tale contaminazione avrebbe avuto non solo sull’ambiente in quanto tale, ma su aree o acque utilizzate dall’uomo o a contatto con la popolazione, tali da determinarne l’esposizione o quanto meno il rischio concreto di esposizione a condizioni pregiudizievoli per la vita e la salute.
A questo punto, per quanto si è detto, l’analisi della riferibilità soggettiva dell’inquinamento presente nel sito corrispondente all’area IPODEC si ridurrebbe, di fatto, a un obiter dictum.
E’ appena il caso di evidenziare, comunque, che la riferibilità delle condotte contestate agli imputati con riguardo all’area IPODEC è ulteriormente condizionata dal fatto che, come emerso in dibattimento (e come documentato anche mediante supporti fotografici –per tutti si fa rinvio alla consulenza redatta dal dott. Jacopo Tinti, CT della difesa dell’imputato Duvia), è accertato che nell’area in questione, già in epoca sicuramente antecedente i fatti contestati, vi erano state massicce operazioni di abbancamento di rifiuti, di origine e natura non nota ma più che verosimilmente appartenenti, almeno in parte, alle tipologie di materiali trovati interrati nel corso delle indagini afferenti la presente vicenda processuale: operazioni riferibili, con certezza, a soggetti diversi dagli odierni imputati. Ciò, con ogni evidenza (e considerato quanto si dirà oltre, su un piano più generale, a proposito della presenza di altre fonti potenzialmente inquinanti nell’area della discarica e in quelle viciniori), implica un evidente vulnus probatorio in punto di riferibilità soggettiva del reato in esame; questione che, peraltro –si ripete- è assorbita da quella attinente il deficit probatorio circa la stessa sussistenza dell’elemento materiale del reato, sotto il profilo dell’evento.
Discarica Ruffino di Pitelli – periodo Contenitori Trasporti -
Quanto all’area interessata dalla discarica in località Ruffino, pur osservandosi che gli accertamenti eseguiti nella fase delle indagini preliminari sono intervenuti dopo che la stessa era già passata sotto la gestione della Sistemi Ambientali, purtuttavia, essendo specificamente addebitato al capo A2 (e anche al connesso capo A12) il disastro ambientale aggravato –con riferimento a detta area- per il periodo fino al 1988 (quando l’area ricadeva sotto la gestione della Contenitori e Trasporti), conviene brevemente esaminare se gli accertamenti stessi dessero conto di una contaminazione dell’area risalente alla precedente gestione (quella, appunto, della Contenitori e Trasporti) e se all’epoca siano state accertate condizioni di inquinamento riconducibili alla nozione di disastro ambientale o di pericolo per la pubblica incolumità nei termini che si sono a più riprese enunciati.
Secondo la prospettazione accusatoria, ciò sarebbe stato realizzato mediante l’abbancamento di scarti della produzione di silani della Union Carbide, di glicole etilenico in fusti, solventi vari (toluene, xilene, benzene ecc.), fusti contenenti terre di bonifica e altri rifiuti tossico nocivi destinati al forno inceneritore, così realizzando una discarica abusiva; nella memoria del P.M., si legge che l’attività connessa alla discarica, e in specie lo sversamento costante di percolato dei rifiuti abbancati, avrebbe determinato l’inquinamento delle acque superficiali e profonde fin dalla prima realizzazione della discarica stessa (1979); fin dal 1981 sarebbero stati rilevati fattori inquinanti presenti nelle acque del torrente Canalone, a valle della discarica, sì da determinare il sequestro dell’area in data 8 novembre 1984; di ciò sarebbero stati conferma, per ciò che attiene in particolare al periodo di gestione della Contenitori e Trasporti, i rifiuti tossico nocivi interrati in zone “naturalmente permeabili”.
Peraltro, nella stessa memoria da lui redatta, il P.M. osserva che “l’inquinamento rilevato durante le campagne di analisi delle acque rappresenta solo una minima parte della reale contaminazione prodotta dalla irregolare gestione della discarica, attuata sistematicamente sin dalla fine degli anni settanta, poiché l’estrema vicinanza dell’impianto al mare, che costituisce il recapito naturale delle acque, ha determinato un deflusso continuo delle acque e di inquinanti non rilevati” .
In origine, l’area in questione –osserva il P.M.- era priva di teli di impermeabilizzazione.
Conviene verificare, alla luce dell’imputazione, se siano stati eseguiti analisi di laboratorio o altri accertamenti in base ai quali, già all’epoca della gestione della Contenitori e Trasporti, si fosse verificato l’evento di danno o di pericolo di cui alla norma incriminatrice, non essendo all’uopo sufficiente –come già si è visto con riguardo all’area IPODEC- la constatazione della presenza di rifiuti qualificabili come tossici o tossico-nocivi, ma dovendosi invece accertare la presenza di condizioni di diffusività dell’inquinamento, nonché il fatto che siffatte eventuali condizioni fossero tali da recare o poter recare concreto pericolo alla popolazione.
Nell’area della discarica, la perizia disposta dal Gip ha effettivamente consentito di rinvenire le sopra citate categorie di rifiuti interrati.
Quanto al rinvenimento di silani in fusti, il teste De Podestà –udienza 21.5.09- ha riferito che nel sito furono trovati i fusti provvisti di etichettatura; successivamente veniva eseguita un’analisi documentale, a seguito della quale trovati vari documenti confermativi del fatto che i materiali che dovevano essere inceneriti venivano in realtà interrati, previa emissione di certificati da cui invece essi risultavano inceneriti; secondo il teste, la società era al corrente dei contenuti pericolosi del materiale: la Union Carbide –società da cui i rifiuti provenivano- aveva curato la trasmissione di un rapporto di pericolosità delle materie oggetto di conferimento: il relativo documento di contrattazione era stato portato alla conoscenza dei responsabili della Contenitori e Trasporti (n. 618 del 13.2.84, allegato A al buono d’ordine: materiale descritto come residui). Il periodo di interesse, secondo il teste, è riferibile al 1983-84. In totale, si sarebbe trattato di 107 tonnellate di materiali. Nelle schede rinvenute a corredo del conferimento dei rifiuti si specificava che essi potevano produrre acido cloridrico a contatto con acqua e aria, e che potevano causare danni alla pelle, agli occhi e per inalazione.
Circa la pericolosità in termini chimici per la salute, riferibile peraltro solo a chi si trovasse a maneggiare direttamente i silani, ha riferito il dott. Cozzupoli all’udienza del 17 gennaio 2008 (pp. 32 e ss. Trascr.).
Peraltro, pur a fronte di questi profili di pericolosità e dell’interramento dei rifiuti nella nuda terra (ossia senza protezioni o impermeabilizzazioni), le condizioni degli stessi (racchiusi in fusti) e l’assenza di accertamenti circa la presenza degli inquinanti nel suolo o nelle acque destinate a uso umano non consentono di stabilire che le condizioni di interramento fossero concretamente, e anche solo potenzialmente nocive, per un numero indeterminato di persone, sia in relazione al rischio di eventuale fuoruscita delle sostanze, sia –e a maggior motivo- in relazione al rischio di diffusione delle stesse nel terreno o nelle acque sottostanti in modo tale da mettere a repentaglio la salute della popolazione interessata.
Né, del resto, un’analisi in concreto della nocività attuale o potenziale di dette condizioni di smaltimento è stata effettuata con riguardo alla effettiva permeabilità del sottosuolo, al percorso che i rilevati fattori inquinanti avrebbero effettuato attraverso le acque di falda, alle modalità attraverso le quali la popolazione residente, o comunque eventualmente interessata all’utilizzo del suolo, del sottosuolo o delle acque stesse sarebbe venuta –o sarebbe potuta venire- a contatto con i fattori inquinanti ricondotti a rifiuti pericolosi.
Ben si evidenzia tale constatazione, proprio alla luce del target probatorio costituito dall’accertamento proposto al Collegio (quello della sussistenza delle condizioni determinanti l’evento del reato contestato), alla luce delle considerazioni conclusive formulate dal consulente del P.M. dott. Sommaruga nelle note scritte depositate all’udienza del 30.12.2007 a proposito dell’area in questione (periodo gestione Contenitori e Trasporti): a pagina 51 del volume riferito a tale area si riassume la situazione accertata dai periti nominati dal G.i.p. e vi si evidenzia che i fusti di silani trovati interrati erano 43: un numero sicuramente non minimale, ma altrettanto sicuramente non qualificabile come tale da produrre un evento dannoso o pericoloso nei termini richiesti, soprattutto ove si consideri che alcun accertamento è stato condotto circa la fuoriuscita dei silani nel suolo e l’entità e quindi la pericolosità di tale fuoriuscita.
Quanto ai rimanenti rifiuti di cui al capo A2 (lettere da b. ad f.), nulla è stato concretamente accertato circa la loro pericolosità, ma unicamente circa l’irregolarità del conferimento alla discarica; e ciò è all’evidenza insufficiente a trarne conclusioni in merito all’idoneità causale ai fini della produzione dell’evento dannoso o pericoloso di cui all’art. 434 c.p..
Si è affermato, nella perizia Sanna, che i rifiuti abbancati al di fuori e al disotto delle vasche (delle quali ci si occuperà in seguito a proposito del periodo di gestione della discarica da parte della Sistemi Ambientali), e comunque interrati nel periodo ritenuto riferibile alla gestione Contenitori e Trasporti, sarebbero potenzialmente pericolosi in quanto suscettibili di essere classificati in parte tossici e nocivi e in parte non ammissibili in detta discarica, mancando sia l’area che l’impianto dei requisiti tecnici posti dalla normativa tecnica a salvaguardia dell’ambiente e della salute, requisiti che non sono stati affatto valutati e controllati, né in sede di valutazione di impatto ambientale, né in sede di rilascio preventivo del certificato di agibilità dell’organo competente (pp. 1535-1536 libro IX perizia Sanna). Il che è quanto dire che la valutazione di pericolosità dei rifiuti interrati nell’area gestita dalla Contenitori e Trasporti –posto che ad essa società sia effettivamente riferibile l’abbancamento degli stessi- è stata effettuata “in astratto”, ossia senza alcuna valutazione in concreto della presenza di un rischio per la salute della popolazione, né dei fattori che avrebbero potuto propagare nell’area condizioni di pericolo per la salute.
Ciò all’evidenza, a parere del Collegio, non soddisfa il target probatorio dell’accusa in ordine alla verificazione dell’evento di danno o –in via gradata- di pericolo connessi all’ipotesi di reato p. e p. dall’art. 434 c.p..
Nella parte della perizia che si riferisce alle eventuali compromissioni dell’assetto idrogeologico (quesito 8 – pag. 1541 e ss. Perizia), si afferma in sostanza che sarebbe stato rilevato un notevole stato di inquinamento delle acque sotterranee, esteso sia alle acque alimentate da falde superficiali (pozzi Meneghini, Mancini e Camarca), sia a quelle alimentate dalla falda profonda (pozzo piezometrico n. 1), a fronte del fatto che a monte della discarica tale inquinamento non fu rilevato; ciò viene fatto risalire, secondo la tesi espressa dai periti, all’inidoneità dell’area ad allocare un impianto di discarica; con l’aggiunta che non fu mai eseguita la bonifica del sito. Da ciò conclude la perizia che la situazione del sito stesso, “per il tipo di rifiuti smaltiti e per l’assenza di qualsiasi misura di salvaguardia” rappresentava “un pericolo per l’ambiente e per l’igiene”.
Sul punto il prof. Sanna ha riferito in dibattimento (udienza 27.9.2005, pag. 135 trascr.).
Epperò, a parte quanto già appare evidente circa l’incongruità con il thema probandum di tali conclusioni –basate come sono su valutazioni astratte, in quanto riferite appunto unicamente al tipo di rifiuti smaltiti e all’assenza di qualsiasi misura di salvaguardia, e non riferibili ad alcuna analisi in concreto delle condizioni di pregiudizio attuale o potenziale per la salute delle persone-, l’esame dibattimentale dei periti ha in qualche modo ulteriormente ridimensionato le certezze manifestate dai periti nella loro relazione, a proposito delle proporzioni e della pericolosità degli effetti inquinanti.
Il prof. Sanna, nel corso dell’incidente probatorio (udienza 16.10.98), ha riferito che per quanto concerne l’area della discarica di Pitelli, per l’accertamento di condizioni inquinanti nelle acque, il collegio peritale aveva a disposizione il solo pozzo PM1, un pozzo non realizzato dai periti, e comunque sostanzialmente giudicato non univoco ai fini della rilevazione degli inquinanti della discarica al cui servizio era posto (pp. 4 - 8 trascr.), tanto da rendere necessaria la previsione di un’integrazione della perizia, rimasta -come si è detto in precedenza- senza esito. Anche per quanto concerne la quantificazione e la volumetria dei rifiuti abbancati nell’area, la risposta del perito è stata negativa, nel senso che tale elemento importante per determinare l’entità e diffusività dell’inquinamento non è stato fornito in sede di perizia (ibidem, pag. 12). Senza contare che, a fronte delle rilevate sostanze inquinanti di origine chimica presenti a valle della discarica, il prof. Sanna non ha saputo fornire spiegazioni in ordine alla circostanza che in realtà, già dal 1978, un’ordinanza sindacale riferita all’intera area (compresa quella della discarica di Pitelli) faceva divieto alla popolazione di utilizzare ortaggi e animali da cortile in relazione ad inquinamento da piombo e metalli pesanti sicuramente non riconducibile alla discarica gestita dalla Contenitori e Trasporti (ibidem, pp. 32 e ss.).
Il perito dr. Floccia, all’udienza dibattimentale del 31.1.2006 (p. 69 trascr.), ha riferito che nel pozzo Meneghini, ubicato appena a valle della discarica, è stata accertata la presenza di sostanze tossiche in concentrazioni superiori a quelle fissate dal DPR 236/88 relativo alle acque destinate al consumo umano (in specie cadmio, nichel e piombo). Analoghi esiti (per quanto in particolare concerne la concentrazione di piombo) venivano offerti dall’analisi delle acque del pozzo c.d. piezometrico, anch’esso a valle della discarica e realizzato successivamente dalla Sistemi Ambientali. A fronte di ciò, spiega il perito, le acque provenienti da altro pozzo piezometrico ubicato a monte fornivano esiti diversi, indicando una minore concentrazione delle sostanze tossiche anzidette; mentre la vasca del percolato, alimentata a detta del dr. Floccia dalla vecchia discarica, sarebbe inquinata da cadmio, mercurio e piombo in quantità superiori a quelle limite per il consumo umano e anche a quelle fissate per gli scarichi in acque superficiali (pp. 72, 74 trascr.). Nel torrente Canalone invece, prosegue il perito (facendo riferimento a bacino idrico indicato come coperto di rifiuti provenienti dalla discarica, e che transitava al margine di essa), sarebbe stata trovata una quantità di nichel comunque inferiore ai limiti di legge (p. 80).
Tuttavia, a parte il fatto che nella perizia non sono state prese in considerazione le possibili fonti inquinanti specifiche (ossia per piombo e cadmio) diverse da quelle indagate (esame dr. Floccia in data 31.1.06, p. 83), né come si è visto sono state adeguatamente esaminate le condizioni inquinanti di origine diversa, in quanto preesistenti nell’area, riferite a piombo e metalli pesanti (riconducibili verosimilmente a insediamenti e stabilimenti della Marina Militare, all’Officina PBO e ad altre attività presenti nel sito), va evidenziato che il parametro esaminato per valutare gli effetti inquinanti di dette sostanze era esclusivamente quello della potabilità (peraltro in misura assolutamente frazionale: vds. pp. 91 e ss. trascr.), e solo per ciò che riguarda la vasca di raccolta della discarica –ossia di un bacino di cui è difficile immaginare l’accessibilità a una quantità indeterminata di persone delle acque ivi raccolte- era anche quello riguardante i valori-limite delle discariche ci acque superficiali.
Dunque, situazione alquanto diversa rispetto a quella descritta nella memoria del P.M., in cui si parla di “elevate concentrazioni di inquinanti” nei pozzi oggetto di monitoraggio.
Oltre a ciò, e per quanto specificamente concerne il capo A2, va osservato che non risulta che le sostanze inquinanti delle quali riferisce il dott. Floccia siano comprese fra quelle espressamente contestate.
Quanto alle dichiarazioni rese dal teste dr. Filippelli all’udienza dell’8.10.09, su circostanze relative all’epoca degli accertamenti eseguiti nel 1982, poi culminati con l’esecuzione del sequestro dell’area in data 8 novembre 1984, viene evidenziato nella memoria del P.M. che il teste, che aveva effettuato detti accertamenti in qualità di chimico, rilevava la fuoriuscita di liquame nero dalla base della discarica; che le successive analisi di laboratorio indicavano che tutti i parametri erano eccedenti i limiti della tabella allegata alla c.d. Legge Merli (n. 319/76); e che in epoca concomitante il torrente Canalone veniva fatto sparire e sostituito con scavi descritti dal teste come “un’autostrada”. E’ di tutta evidenza che, a parte la violazione della normativa sulle acque allora vigente, né il rilevamento di fattori inquinanti nello scarico della discarica, né l’alterazione dell’assetto idrogeologico consistente nella modifica del corso del torrente Canalone (in totale difetto di ogni indagine scientifica circa un eventuale pericolo di frane, alluvioni, allagamenti o smottamenti potenzialmente atto a interessare le popolazioni dell’area) sono in sé qualificabili come causalmente efficienti ai fini del verificarsi di un evento di diffusività rilevante, e costituente danno o pericolo per la pubblica incolumità, nei termini postulati dall’art. 434 c.p. oggi contestato; e ciò in quanto, qui come altrove, non è stato eseguito alcun accertamento in ordine alle conseguenze dannose o pericolose -non sull’ambiente, ma in particolare sulla salute della comunità, coerentemente con l’imputazione oggi contestata- che i denunciati fattori inquinanti e di alterazione della morfologia idrogeologica avrebbero comportato o potuto comportare in concreto.
La carenza di elementi in tal senso, in aggiunta alla presenza di fonti alternative di inquinamento preesistenti alla discarica (che inducono a dubitare della riferibilità di almeno una parte dei rifiuti tossico-nocivi e delle sostanze inquinanti alla gestione della discarica), è ben evidenziata nelle note di consulenza redatte per la Difesa dal dott. Tinti.
Oltre a evidenziarsi, infatti, come sull’area interessata all’attività della discarica insistessero diversi insediamenti potenzialmente inquinanti, anche prima dei fatti per cui si procede (vds. pp. 3 e ss. delle note di consulenza del dr. Tinti), il consulente della difesa Duvia ha evidenziato:
• che l’accertamento delle acque condotto mediante campionamenti e analisi delle acque estratte da pozzi di uso civile e da piezometri è stato eseguito pur a fronte delle modalità non ottimali di realizzazione e delle cattive condizioni di manutenzione dei pozzi, non rispondenti alle esigenze del monitoraggio chimico delle acque;
• che il torrente Canalone, di cui l’assunto accusatorio ha cercato di evidenziare la riferibilità dell’inquinamento all’attività della discarica, ha in realtà un andamento stagionale, con siccità estive e assorbimento delle acque dall’alveo del corso d’acqua;
• che, oltre al campionamento dei rifiuti nell’area della vecchia discarica (limitato ai tre punti di rinvenimento evidenziati nella planimetria a pag. 20 della consulenza), i percolati della vecchia discarica sono risultati esenti da alcune delle sostanze chimiche indagate (glicole etilenico, oli minerali ecc.) e contaminati in misura assai modesta, e addirittura inferiore o prossima al limite di potabilità, per quanto concerne i metalli pesanti (rame, piombo);
• che nel percolato non sono state rilevate tracce dei composti e delle sostanze chimiche presenti nei fusti interrati, segno evidente che il terreno sottostante non era particolarmente permeabile e che non vi era sostanziale mobilità delle sostanze racchiuse nei fusti;
• che nei pressi della discarica di Ruffino i periti non hanno mai realizzato piezometri per il rilevamento, e che quelli successivamente realizzati dall’ARPAL non hanno rilevato la presenza di falda acquifera;
• che del resto la scarsa permeabilità del sottosuolo nell’area è confermata dalla relazione della dott.ssa Luciani, ausiliaria dei periti nominati dal G.i.p. (pp. 32-33 della consulenza).
In conclusione, con riferimento al periodo in cui la discarica di Ruffino/Pitelli era gestita dalla Contenitori e Trasporti, vi è carenza, se non totale assenza, di prove circa la qualificabilità dell’inquinamento rilevato nei termini di pericolosità o dannosità postulati dall’editto imputativo (oltrechè in ordine alla riferibilità, almeno in parte, delle sostanze inquinanti campionate nel terreno e nelle acque all’attività della discarica).
Anche in questo caso ciò ha valore assorbente in ordine a ogni altra questione e, in primo luogo, in ordine alla posizione dei singoli imputati attinti dall’addebito di cui al capo A 2.
Quanto al capo A12, relativo all’abbancamento abusivo di un quantitativo di rifiuti stimato in oltre 172 mila mc di rifiuti in aree non autorizzate in difformità al progetto approvato con concessione edilizia n. 37/79, poiché tale condotta si pone, nell’assunto accusatorio, come suscettibile di aggravare le conseguenze delle condotte di cui al capo A2, deve semplicemente constatarsi che anche sotto questo profilo –e in termini sostanzialmente derivati rispetto alle considerazioni già svolte a proposito del capo A2-, non è emersa alcuna prova che la realizzazione abusiva della discarica nei termini oggetto di contestazione abbia determinato l’evento di danno o di pericolo che è elemento costitutivo del delitto di disastro ambientale. Sul punto, è appena il caso di osservare che il mero dato volumetrico, posto che esso possa considerarsi comprovato, non è in sé incidente sull’eventuale propagarsi di un pericolo per la pubblica incolumità, e men che meno di un disastro ambientale, posto che non vi sono elementi di conforto al prodursi di tali eventi a causa dei rifiuti abbancati sull’area dalla Contenitori e Trasporti.
Qui, come altrove, si è ingenerato un elemento di confusione circa le condotte ascritte agli imputati, tra censure di tipo amministrativo o al più illeciti di tipo ambientale/urbanistico (che non formano oggetto di imputazione) e illeciti classificati sistematicamente fra i reati di pericolo per la pubblica incolumità (tra i quali si inscrive il delitto di disastro ambientale, nelle sue varie formulazioni).

Discarica Pitelli – periodo Sistemi Ambientali –
I capi da A 3 a A9, nonché i capi A13 e A 14, concernono le condotte riferite all’area della discarica nel periodo in cui essa era sotto la gestione della Sistemi Ambientali, che l’aveva rilevata dalla Contenitori e Trasporti.
Come si può ricavare dall’imputazione, particolarmente articolata, le condotte oggetto di addebito riguardano in estrema sintesi il conferimento di rifiuti qualificati come speciali o tossico-nocivi (puntualmente elencati in particolare ai capi A3 e A9), la dispersione di percolati, l’omessa realizzazione di un argine a monte della vasca n. 4, lo scarico di acque di lavaggio della zona del forno inceneritore nelle acque del torrente Canalone, l’innaffiatura con percolato dei rifiuti abbancati nelle vasche, l’omessa copertura dei rifiuti e conseguente fuoriuscita di biogas e sostanze volatili dalla discarica; nonché la realizzazione della discarica nel suo insieme in totale difformità dalle prescrizioni regionali e senza procedere al recupero paesistico-ambientale dell’area.
Per meglio comprendere l’origine degli addebiti –sulla cui congruità rispetto all’ipotesi di reato contestata si dirà appresso- conviene muovere dalle dichiarazioni del teste del PM dott. Castiglia.
Questi ha in sostanza affermato che, nel marzo del 1992, la Contenitori e Trasporti cedeva in affitto un ramo di azienda alla Sistemi Ambientali: in particolare venivano affittati la discarica e il forno inceneritore; prima di allora era intervenuta, con provvedimento della Giunta Regionale della Liguria, la delibera n. 3493 del 1989, che prevedeva l'adeguamento del sito ad un apposito progetto (c.d. Progetto Sanfilippo). Ad aprile del 1992 iniziava l'attività del forno inceneritore sotto la gestione della Sistemi Ambientali; nel contempo iniziavano le attività di preparazione della discarica, le quali si sarebbero dovute attenere dalla delibera autorizzativa del 1989. Nel 1992, in base alle dichiarazioni di conformità al progetto rilasciate dall’amministrazione provinciale, veniva rilasciata la prima delibera autorizzativa (la n. 6146) relativa alla gestione intestata alla società Sistemi Ambientali, che quindi iniziava l'attività anche nella discarica.
Detta delibera, ha ricordato il dott. Castiglia, precisava alcuni punti, prescrivendo in particolare il ripristino paesaggistico, che doveva essere contestuale alla procedura di abbancamento dei rifiuti, che secondo il progetto Sanfilippo e la delibera del 1989 sarebbe dovuta avvenire dal basso verso l'alto, con la finalità di procedere progressivamente al ripristino dello stato dei luoghi, mediante deposizione di terreno vegetale e successiva messa a dimora di piante.
Quanto alle tipologie di rifiuti conferibili, poiché la delibera richiamava l’originario progetto Sanfilippo, permaneva il divieto di conferire rifiuti putrescibili (in modo che fosse evitata l'emissione di biogas) e materiale contenente amianto in fibra libera; inoltre, come previsto per le discariche di seconda categoria di tipo B come quella di Pitelli, era previsto che l'eluato dei rifiuti conferibili, per quanto riguarda i metalli di cui all' allegato al DPR 915, dovesse presentare un tasso di acido acetico entro i limiti della tabella A della Legge n. 319/76. Inoltre, e soprattutto, non potevano essere conferiti rifiuti classificabili come tossici o nocivi.
In realtà, prosegue il teste Castiglia, la sistemazione della discarica veniva eseguita con la realizzazione di vasche sovrapposte (in numero di 4, nell’assetto finale), e ciò in difformità rispetto al progetto Sanfilippo e alle delibere autorizzative; la quarta vasca veniva realizzata nel 1995 e sostanzialmente approvata dalla successiva delibera regionale n. 3171 del 1995 (che, vale la pena ricordarlo, modificava la qualifica della discarica da tipo 2 B a tipo 2 B super, con conseguente possibilità di smaltire rifiuti che al test di cessione danno un eluato di 10 volte superiore rispetto alla tabella A della legge 319/76); le vasche, realizzate dalla Sistemi Ambientali, risultavano in parte sovrapposte e poggiavano sull’area interessata alla vecchia discarica della Contenitori e Trasporti, caratterizzata da abbancamenti privi di sistemi di protezione del sottosuolo.
Il teste Castiglia –appartenente al Corpo Forestale dello Stato- ha riferito di molteplici denunce e segnalazioni della gestione irregolare dell'impianto.
Per quanto riguarda tali modalità di gestione giudicate irregolari, i complessivi contributi probatori offrono contezza del conferimento di rifiuti tossico-nocivi all’interno della discarica, secondo modalità analiticamente riferite, capo per capo, dai testi, dai periti e dai consulenti dell’accusa pubblica e privata; viene poi offerta contezza delle condotte attive e omissive sull’area della discarica, oggetto di imputazione e risalenti al periodo di gestione della Sistemi Ambientali.
Ad esempio, il dott. Sommaruga riferisce dell’abbandono in cui era tenuta la vecchia vasca di raccolta del percolato realizzata in precedenza dalla Contenitori e Trasporti a servizio della discarica dalla stessa gestita, vasca non bonificata (in violazione delle delibere autorizzative) e coperta dalle vasche n. 2 e 3 realizzate dalla Sistemi Ambientali; la perizia del prof. Sanna aveva del resto già precisato che detta vasca di raccolta non impediva la tracimazione del percolato nelle acque del torrente Canalone.
Dal canto suo, il dott. Castiglia ha riferito anche in ordine alla tracimazione di percolati al piede della discarica, con conseguente afflusso di liquido nerastro, giudicato inquinato, nelle acque del torrente Canalone.
Tuttavia è proprio il prof. Sanna a escludere, in sede di esame durante l’incidente probatorio (udienza 18.9.1998), che le (peraltro limitate) tracimazioni verificatesi nel sito abbiano avuto un valore realmente inquinante, essendosi trattato in concreto di fatti episodici e non sistematici.
Non si vede come possa, dunque, annettersi rilievo causale alla tracimazione verificatasi nel 1994 (unica ricadente nella contestazione di cui al capo A5) ai fini dell’inquinamento delle acque del torrente e, a maggior motivo, ai fini del delitto di disastro ambientale.
Né si può annettere rilievo causale alle tracimazioni dei percolati rilevate dal teste Castiglia, atteso quanto si è visto in ordine agli esiti delle analisi di laboratorio delle acque del torrente Canalone: esiti, come è agevole rilevare, che sono stati eseguiti prendendo a base sistemi di classificazione delle acque decisamente incongrui, e che cionondimeno sono risultati del tutto tranquillizzanti nel loro complesso, e in quasi tutte le campionature.
Ancora il dott. Sommaruga ha riferito in ordine all’abbancamento, in discarica, di una volumetria di rifiuti pari a circa 525000 mc stimati, a fronte di un limite di 320000 metri cubi oggetto di autorizzazione.
Si è molto dibattuto a proposito del superamento del limite suddetto, soprattutto al fine di dimostrare la prova dell’elemento soggettivo del dolo diretto, quanto meno in capo ai vertici della Sistemi Ambientali che parteciparono alla riunione in data 12.7.1996 (Motta, Duvia, Polotti), e con riferimento al documento trovato in un personal computer sequestrato, nel quale si avallerebbe sia il già avvenuto superamento dei limiti volumetrici dei rifiuti da conferire in discarica, sia la prosecuzione, nonostante ciò, dei conferimenti.
In realtà –e si tornerà oltre sul punto-, anche in base alla stessa contestazione di cui al capo A13, non è dato vedere attraverso quali fenomeni e attraverso quali dinamiche l’abbancamento di una volumetria di rifiuti superiore al consentito nella discarica di Pitelli da parte della Sistemi Ambientali abbia determinato, o avrebbe potuto determinare, condizioni di pericolo, attuale o potenziale, per la pubblica incolumità.
Sul punto, a parte gli elementi di dubbio o di contrasto circa l’effettiva stimabilità dei volumi conferiti (vds. deposizione Sommaruga, in data 22.5.07) o circa le ragioni che spinsero i vertici della Sistemi Ambientali a proseguire nei conferimenti, alcun contributo probatorio è pervenuto.
Sempre il dott. Sommaruga ha riferito della presenza di punti di permeabilità nei teli posti a contenimento delle vasche della discarica, con conseguente immissione dei percolati nell’alveo del torrente Canalone; questi aspetti sono trattati anche nella perizia Sanna.
Questo aspetto è di particolare interesse, anche sul piano complessivo, giacchè la discarica, nell’assetto ad essa conferito dalla Sistemi Ambientali, era organizzata come si è visto in 4 vasche, coperte alla base da una protezione costituita da teli impermeabili.
La permeabilità che, invece, sarebbe stata riscontrata potrebbe avere un rilievo causale su una possibile propagazione dei percolati nel sottosuolo e, quindi, su un possibile afflusso degli stessi sia nel terreno che nelle acque sottostanti. Il che –beninteso- non sarebbe ancora, di per sé, la prova di un pericolo per la pubblica incolumità, ma porrebbe le premesse per verificarne la sussistenza.
In realtà, nemmeno sotto questo profilo l’assunto accusatorio ha trovato conferme.
Anzi, il prof. Sanna, sentito all’udienza del 3 ottobre 1998, ha affermato che in realtà non sono stati eseguiti accertamenti peritali su eventuali perdite delle vasche, a parte l’episodio della tracimazione (risentito in dibattimento, il 31.1.2006, affermerà di avere dedotto che vi erano perdite dalla presenza di inquinanti nelle acque dell’area: non occorre spendere molte parole per constatare la scarsa congruità di siffatto argomento deduttivo); e lo stesso dott. Sommaruga, sentito sul punto il 22.5.07, ha riferito che l’esame della permeabilità dei teli con l’impiego di fluoresceina è stato eseguito, su indicazione dei periti nominati dal G.i.p. praticando dei tagli nei teli stessi –soluzione da lui stesso definita “non una cosa bella”- e soprattutto che la tenuta del telo non è, in realtà, mai stata messa in discussione (“il telo è certificato che tiene, quindi su quello non ha mai posto nessun dubbio nessuno, sulla tenuta del telo” – p.- 41 trascr.).
Tale elemento consente di constatare che, per quanto difforme dalle prescrizioni del Progetto Sanfilippo, la sistemazione in vasche impermeabilizzate della discarica non consentiva alcun passaggio dei percolati delle sostanze inquinanti ivi conferite al terreno e alle acque sottostanti.
Sempre il consulente del PM, dott. Sommaruga, nonché il teste dott. Castiglia, riferiscono in ordine allo sversamento nel torrente delle acque di lavaggio dell’area ove insisteva il piazzale del forno inceneritore, e dei conseguenti accertamenti analitici. In sostanza, è stato osservato il deflusso in direzione del torrente Canalone, tramite una tubazione a cielo aperto, delle acque di lavaggio dei piazzali della discarica e del bacino di contenimento del forno inceneritore: acque che, secondo il consulente del PM Sommaruga, erano impregnate delle ceneri di caduta presenti in prossimità del forno; le successive analisi, eseguite a seguito di rilevazione dello stato dei luoghi il 2 giugno del 1997, indicavano la presenza di valori di COD, di cloruri e di rame fuori dai limiti della tabella A della legge Merli.
Sul punto, però, è stato innanzitutto giustamente osservato –vds. memoria difesa Motta- che la delibera regionale del 3.9.1990 di autorizzazione all’esercizio del forno FC10 alla Contenitori e Trasporti prevedeva fra l’altro che “le acque di raccolta dei pluviali non devono interferire con gli stoccaggi e devono essere smaltite previa canalizzazione in corpi recettori naturali” .
Ma, a parte ciò, non sono emerse evidenze tali da concorrere a una condizione di immediato o potenziale rischio per la salute umana: i rilievi analitici eseguiti nel 1997 offrono contezza solo del superamento di alcuni valori-limite della legge sulle acque, ma ciò non significa che per tali ragioni le acque di deflusso determinassero, nell’alveo recettore, un inquinamento di grado così elevato da porre a repentaglio l’incolumità della popolazione, senza contare che difettano totalmente elementi di prova circa il fatto che il torrente Canalone convogliasse acque destinate al consumo o all’utilizzo da parte dell’uomo.
Le suddette fonti di prova orale riferiscono altresì della dispersione di percolato in misura di gran lunga eccedente rispetto a quello effettivamente smaltito; nonché dell’innaffiamento con lo stesso percolato dei rifiuti abbancati nelle vasche e delle conseguenti emissioni di biogas e sostanze volatili, oltrechè di miasmi molesti, e senza che i rifiuti venissero coperti.
Quanto al primo punto, è stato ampiamente posto in evidenza che la stima del volume del percolato disperso è frutto di valutazioni di stima assai discutibili effettuate dal dott. Sommaruga; che l’omessa installazione di un argine a monte della vasca n. 4 non ha avuto alcun rilievo causale ai fini dell’assunto accusatorio (essendo state le tracimazioni, come si è visto, del tutto sporadiche e sostanzialmente non incidenti sui pretesi fenomeni d’inquinamento); e che il tubo fessurato posto a monte della vasca, per ragioni di ordine logico, non poteva avere la funzione di smaltimento del percolato nelle acque del torrente Canalone, ma piuttosto quella di intercettare le acque provenienti da monte per evitare che l’afflusso delle stesse nella vasca producesse altro percolato.
E comunque, anche sotto questo profilo, la tesi accusatoria non ha offerto elementi tali da porre siffatte emergenze (peraltro oggetto di disamina critica che ne ha posto quantomeno in forse la stessa fondatezza) in relazione con eventuali, e non dimostrate, condizioni di pericolosità del sito per la pubblica incolumità.
Quanto poi alle operazioni di innaffiamento delle vasche con percolato e al fatto che tali operazioni avrebbero concorso allo sviluppo di biogas e miasmi, è stato posto in evidenza dalla difesa che dette operazioni avrebbero avuto una funzione positiva nel limitare possibili effetti inquinanti del percolato, secondo quanto illustrato dalla Sistemi Ambientali nel piano di gestione della discarica approvato dalla Regione Liguria con la delibera del 1992, sulla scorta di opinioni scientifiche opportunamente documentate; tesi contestata dal consulente del PM, dott. Sommaruga, secondo il quale tale prassi avrebbe comunque mantenuto in circolo i percolati, determinandone l’aumento nel tempo, aumento non compensato dall’evaporazione.
Quanto all’omessa copertura giornaliera delle vasche, che avrebbe determinato le emissioni di biogas, essa sarebbe stata riscontrata nella tesi accusatoria dall’accertata presenza di odori molesti nella zona, rilevati dalla Polizia Municipale, nonché oggetto di diffida ad opera della Regione (n. 3350/94) e di apposite ordinanze sindacali di sospensione cautelativa dei conferimenti (il 10.6.94 e il 17.9.94). Nessun elemento scientifico di riscontro, tuttavia, è pervenuto al sapere processuale circa il contenuto nocivo di tali esalazioni, essendosi basate le rilevazioni in sito, a tale riguardo, su dati meramente presuntivi e non riscontrate da analisi della presenza, nell’aria, di elementi inquinanti di tipo pericoloso dovuti all’emissione di biogas.
Ma, a parte ciò, anche qui come altrove non è emerso alcun elemento probatorio circa l’eventuale rilevanza causale di dette condotte sul prodursi di una condizione di pericolo per la pubblica incolumità o, men che meno, di una condizione assimilabile a quella di disastro ambientale secondo la nozione che si è a più riprese richiamata nelle pagine che precedono.
Sono state poi analiticamente descritte le modalità di conferimento di numerose tipologie di rifiuti, qualificati come speciali o tossico-nocivi.
L’istruzione dibattimentale è stata a lungo impegnata dall’accurata disamina della natura di detti rifiuti, della loro provenienza, degli elementi anche di natura documentale che ne riscontrerebbero il verificarsi, del ruolo che gli imputati, in relazione alla loro qualifica nell’ambito della Sistemi Ambientali, avrebbero avuto in ciascuna delle singole condotte.
Sicuramente per molte delle ipotesi descritte ai capi A3 e A9 non mancano elementi di riscontro, che offrirebbero conferma del conferimento di rifiuti qualificabili come tossico-nocivi all’interno della discarica, all’epoca della gestione affidata alla Sistemi Ambientali; e ciò, altrettanto sicuramente, in difformità rispetto alle delibere regionali di riferimento, che come si è visto vietavano il conferimento in discarica di rifiuti tossico-nocivi.
Detto ciò, non può esimersi il Collegio dal formulare alcune osservazioni di importanza essenziale ai fini dell’accertamento del reato contestato, o comunque di condizioni riconducibili alle nozioni di disastro ambientale e di pericolo per la pubblica incolumità finora delineate.
Innanzitutto, delle 4 vasche realizzate dalla Sistemi Ambientali, solo la n. 4 è risultata contenere con certezza rifiuti tossico-nocivi; a parte ciò, solo nella vasca n. 2 erano state riscontrate nell’eluato tracce di metalli eccedenti i limiti della Legge Merli del 1976.
Si riporta il passaggio della perizia Sanna che illustra il punto:
“Relativamente alla “zona a vasche”, in cui sono ubicate quattro vasche, che individueremo come vasca 1, vasca 2, vasca 3 e vasca 4, realizzate, progressivamente nel tempo, rispettivamente negli anni 92-93, 93, 94 e 95, si può concludere come in tali vasche sono stati discaricati rifiuti diversi da quelli che erano stati autorizzati ( … ).
Nel corso della presente indagine, nella vasca 1, relativamente alla parte risultata accessibile ai sondaggi, sono stati individuati rifiuti costituiti da fanghi a prevalente matrice inorganica, compatibili con l’autorizzazione.
Nella vasca 2, invece, come comunicato nella camera di consiglio del 26.6.97, non è stato possibile effettuare sondaggi in quanto ad essa completamente sovrapposta la vasca 4. Per l’accesso alla vasca 2 sarebbe stato necessario, pertanto, svuotare la vasca 4, rimuoverne l’impermeabilizzazione del fondo, drenare il percolato e, quindi, accedere alla sottostante superficie della vasca 2.
Per questa vasca, si è potuto perciò fare riferimento soltanto ai risultati analitici ottenuti dal P.M.P. di La Spezia sui campionamenti effettuati nei mesi di luglio 1993 e di aprile 1994. Essi hanno evidenziato, relativamente ai parametri ricercati nei rifiuti campionati, che erano conformi a quanto previsto dalla delibera del 27.7.1984. Diversamente, le analisi dell’eluato ottenuto nel test di lisciviazione hanno evidenziato che le concentrazioni dei metalli pesanti previste nell’allegato al D.P.R. 915/82 superavano i valori limite della tab. A allegata alla legge 319/76, prescritti nella autorizzazione regionale.
Pertanto, in base ai risultati ottenuti dal P.M.P. di La Spezia, nella vasca 2, risulta che sono stati smaltiti rifiuti non previsti nella autorizzazione.
Nella vasca 3, nella parte risultata accessibile agli scavi, nella presente indagine sono stati rinvenuti rifiuti costituiti da fanghi a matrice prevalentemente inorganica, compatibili con quelli previsti nell’autorizzazione.
Nella vasca 4, abbancata dagli inizi del 1995, potevano essere discaricati i rifiuti elencati nelle diffide regionali del 30.12.1994 e del 28.3.1995, nonché nella successiva Delibera regionale del 28 settembre 1995 che comprendeva, tra l’altro, tutti i rifiuti elencati nelle stesse diffide regionali (tab. A). Inoltre, i rifiuti elencati nella delibera regionale, sottoposti alle prove di cessione di cui al paragrafo 6.2 della deliberazione interministeriale 27.7.1984, dovevano avere un eluato che non superasse di 10 volte i limiti di accettabilità previsti dalla tabella A della legge 3 19/76 e successive modificazioni, per i metalli compresi nell’allegato al D.P.R. 915/82.
Nella vasca 4 sono stati effettuati numerosi scavi e sondaggi, che hanno permesso di qualificare la qualità dei rifiuti discaricati e la loro compatibilità con l’impianto autorizzato.
Sono stati individuati i seguenti rifiuti:
- scarti dell’industria farmaceutica, classificati come tossici e nocivi in quanto previsti al punto 1.5 della tabella 1.3 della delibera 27.7.1984;
- residui della demolizione di autoveicoli (fluff), presenti in quantitativi elevati su tutta la superficie ed in profondità della discarica e rifiuti costituiti da fanghi, ceneri e/o scorie contenenti metalli oltre la concentrazione limite di cui alla delibera Interministeriale del 27.7.84, superata la quale il rifiuti ~ da classificare come tossico e nocivo ed il cui contenuto di metalli pesanti presenti nell’eluato superava il limite prescritto nella autorizzazione regionale.
I rifiuti riscontrati, quindi, non erano ammissibili in base all’autorizzazione regionale. (cfr. allegato n° 3 - Vol. IX -conclusioni Perizia Prof. Sanna e altri nell’ambito dell’incidente probatorio).
Ora, già alla stregua di tale dato, e pur a fronte dei volumi conferiti nelle parti della discarica interessate al conferimento di rifiuti tossico-nocivi, viene fatto di osservare che esso non appare ragionevolmente compatibile con il criterio di diffusività delle condizioni di pregiudizio ambientale alla base delle nozioni di disastro ambientale o di pericolo per la pubblica incolumità che si sono delineate in precedenza.
In aggiunta a ciò, si è già avuto modo di osservare –ma vale la pena ribadirlo- che le vasche erano impermeabilizzate, al fondo, mediante la presenza di teli, e che i denunciati fenomeni di permeabilità di questi ultimi non hanno trovato conferma nel corso dell’istruzione dibattimentale.
Con ciò, è venuta meno la prova di una condizione essenziale circa la possibile propagazione al sottosuolo e alle acque sottostanti delle sostanze inquinanti di cui viene denunciato il conferimento, condizione questa che –come si è detto- sarebbe stata quella minima indispensabile per eventualmente accertare se tale diffusione abbia o meno determinato condizioni di pericolo per la pubblica incolumità o, a maggior motivo, di disastro ambientale.
E si è già visto che le occasionali tracimazioni di percolato dalle vasche non hanno sortito –per espressa ammissione del prof. Sanna- condizioni inquinanti apprezzabili. Mentre, per le aree esterne alle vasche, riconducibili alla gestione della Contenitori e Trasporti, si è già detto a proposito della precedente gestione della discarica.
In terzo luogo, e conseguentemente, deve osservarsi che l’analitica illustrazione delle acquisizioni istruttorie riguardanti le singole tipologie di rifiuti conferite in discarica, con riferimento a quelle elencate nei capi A3 e A9 (sulla scorta degli elementi raccolti nel corso dell’attività peritale e riferiti altresì, in particolare, dai testi Castiglia, Ciapica e De Podestà, che hanno eseguito numerose altre attività di accertamento), costituisce dato probatorio che, a parte le osservazioni svolte dalle Difese interessate, si esaurisce comunque in se stesso, non avendo spiegato alcun effetto circa la ricostruzione delle condizioni di disastro ambientale o pericolo per la pubblica incolumità, che pure avrebbero dovuto costituire il vero target probatorio.
Ciò equivale a dire che eventuali condotte illecite configurabili nel conferimento di rifiuti appartenenti a tipologie non consentite non sarebbero comunque di per sé sufficienti a determinare effetti di incombente o potenziale pericolo, e men che meno di danno, per la pubblica incolumità, in assenza di ulteriori elementi probatori, e pertanto non consentirebbero comunque al Collegio di qualificarle alla stregua del reato di disastro ambientale, nelle sue diverse forme.
Le tesi difensive hanno, di volta in volta, posto in discussione la reale valenza tossico-nociva di alcuni dei rifiuti sotto il profilo tecnico-scientifico; la riferibilità dei relativi conferimenti ai singoli assistiti; la consapevolezza di costoro di conferire rifiuti non consentiti.
Ma, a ben vedere, il rilievo di tali dati, pur rilevanti sulla scorta dell’enunciazione imputativa, è invece assorbito dal fatto che gli stessi, anche se trovassero riscontro univoco, pieno e puntuale nel compendio probatorio pervenuto al sapere processuale, non esaurirebbero la questione fondamentale, costituita –lo si ripete ancora una volta- dalla sussistenza o meno dell’evento di danno o di pericolo concreto nel quale consiste il reato di cui all’art. 434 c.p. (o l’ipotesi colposa di cui all’art. 449 c.p.).
Ciò rende del tutto oziosa e ultronea la puntuale ricostruzione dei singoli accertamenti, degli scavi, delle indagini e dei riscontri documentali riguardanti le singole tipologie di rifiuti, posto che, non essendo stata comprovata la loro propagazione al sottosuolo e alle acque di superficie o di falda, né essendovi elementi obiettivi e univoci di riscontro scientifico alla propagazione nell’aria di esalazioni nocive, e men che meno al fatto che fattori inquinanti e nocivi provenienti da detti rifiuti venissero a contatto con la popolazione direttamente o indirettamente, difettano le condizioni minime per effettuare un approfondimento circa l’idoneità causale dei conferimenti di rifiuti speciali o tossico-nocivi al determinarsi di condizioni assimilabili alla nozione di disastro ambientale o di pericolo per la pubblica incolumità.
Non a caso, nelle conclusioni dell’elaborato scritto dei periti nominati dal G.i.p. (pp. 1535/1536, IX°) si afferma, con riguardo all’area strutturata a vasche (corrispondente alla discarica gestita dalla Sistemi ambientali), che i rifiuti ivi abbancati sono “potenzialmente pericolosi” (e dunque non pericolosi in concreto) per il fatto di appartenere alla categoria dei rifiuti tossico-nocivi e (in parte) speciali, e non anche per la presenza di un concreto rischio di propagazione (mediante infiltrazione nelle falde, percolatura, esalazioni o fumi) a contatto con la popolazione residente in zona.
È appena il caso di evidenziare come questo deficit probatorio abbia riguardato anche la violazione contestata al capo A14) (ossia l’omesso rispetto delle prescrizioni di cui alle deliberazioni regionali che imponevano il progressivo recupero ambientale paesaggistico), atteso che, in mancanza di prova sufficiente circa il prodursi di un evento di danno o di pericolo riguardante la pubblica incolumità nei termini oggetto di premessa, è mancata altresì ogni emergenza probatoria circa un eventuale nesso causale fra tale evento e la condotta omissiva ascritta agli imputati. È del resto difficile ipotizzare o immaginare che il mancato rispetto di criteri di sistemazione paesistico-ambientale dell’area possa determinare effetti dannosi o pericolosi per l’incolumità pubblica, senza che ciò venga posto in relazione con specifici (e mai comprovati) accadimenti –o condizioni di rischio- riguardanti l’assetto dell’area, che accreditassero concretamente il prodursi di quegli effetti o il fondato pericolo che essi venissero a determinarsi.
Forni Inceneritori –
Alcuni capi di imputazione (segnatamente i capi A10 e A11) fanno poi riferimento all’attività di combustione dei rifiuti, collaterale allo smaltimento dei rifiuti, mediante i forni inceneritori FC10 e DA5. La tesi accusatoria era tesa a dimostrare che, attraverso la combustione dei rifiuti tossico-nocivi e speciali, si diffondessero condizioni di inquinamento nell’aria, di intensità ed estensione tali da concorrere a determinare il prodursi di un disastro ambientale; ma in realtà, alla luce della stessa imputazione, ciò che si contesta agli imputati è il conferimento di sostanze tossico-nocive (farmaci, fitofarmaci, cosmetici ecc.) e la gestione dei forni con modalità tali da violare le prescrizioni amministrative contenute nelle autorizzazioni regionali (con riguardo alle emissioni nocive; ed in specie, per quanto concerne il forno FC10, circa i limiti massimi di contenuto di carbonio organico nelle ceneri, di concentrazione di fumi di anidride solforosa, di permanenza dei fumi nella camera di post-combustione, del rapporto fra CO2/CO+CO2 nei fumi di combustione), e senza effettuare con la prescritta periodicità le analisi dei fumi.
Già nell’imputazione non viene dato conto dell’entità delle violazioni contestate ai fini della diffusività e del grado di asserita nocività delle emissioni illecite per la salute umana, ma solo del fatto che le attività di combustione e quelle di gestione dei forni sarebbero avvenute senza il rispetto di prescrizioni amministrative.
E’ dunque di tutta evidenza, già alla stregua dell’editto imputativo, la lacunosità degli addebiti in relazione al reato contestato.
Attraverso l’analisi delle condotte contestate ai capi A10 e A11 è dato verificare l’aspetto relativo all’inquinamento dell’aria che avrebbe concorso a determinare, nell’ottica accusatoria, condizioni rapportabili alla nozione di disastro ambientale; a proposito dell’impatto delle attività inquinanti sull’atmosfera, si è già avuto modo di vedere che nessuna delle condotte precedentemente analizzate –ed in specie quella riferita all’emissione di biogas dalla discarica- ha trovato riscontri oggettivi, con particolare riguardo all’assenza di elementi analitici di tipo scientifico che consentissero di affermare che le emissioni di sostanze nocive nell’atmosfera avessero un impatto nocivo per la salute, e men che meno che tale impatto fosse qualificabile come disastro ambientale o determinasse pericolo per la pubblica incolumità.
A proposito dei forni inceneritori, le emergenze probatorie non hanno parimenti condotto a fornire riscontro all’accusa.
Dato per acquisito che i forni non fossero idonei alla combustione dei prodotti non autorizzati, e che non siano state rispettate le prescrizioni di cui alle delibere regionali nn. 6931/82, 2741/85 e 3766/90, le irregolarità denunciate –e tratte dall’attività peritale compiuta dal dott. Liuzzo e dalla consulenza del dott. Cozzupoli- non sono state indagate con riferimento al prodursi di condizioni tali da determinare, con il grado di diffusione postulato dalla norma incriminatrice, né il disastro ambientale, né il pericolo per la pubblica incolumità: condizioni che, appare di tutta evidenza, non possono affermarsi limitandosi a censurare violazioni dei limiti contenuti nelle autorizzazioni amministrative, in difetto di ulteriori, specifici elementi.
Anzi, vi sono elementi per affermare il contrario, provenienti dagli stessi esperti designati dal G.i.p.
All’udienza del 3.10.1998, nel corso dell’incidente probatorio, il prof. Liuzzo –perito designato dal Giudice per le indagini preliminari- ha espressamente affermato con riferimento al forno FC10: “quando si tratta di impianti così piccoli, diciamo, questo impianto molto piccolo, non ha quasi senso fare l’’impatto ambientale classico, cioè la valutazione di effetto … atmosferici nell’aria … ecco quell’impianto lì dal punto di vista dell’emissione di ossido di carbonio è certamente inferiore a quello di un’automobile” (p. 35 trascr.).
Ancor più chiaramente, e in modo ancor più decisivo sotto il profilo del target probatorio, il prof. Liuzzo si esprime in dibattimento, in occasione dell’udienza del 14 marzo 2006: “in relazione alla modesta portata dei fumi i casi sono due: o la situazione atmosferica, diciamo meteoclimatica, è tale da non favorire la dispersione degli inquinanti, allora si ha una ricaduta nella zona prossima all’impianto e quindi non in zona interessata da popolazioni residenti circostanti, oppure si ha una situazione meteoclimatica favorevole alle dispersioni di questi inquinanti e quindi il vento con una discreta velocità in una certa direzione, e allora le ricadute si hanno anche a più distanza, ma a una diluizione tale, tenendo conto della modesta portata, che risultano incrementalmente, rispetto al valore dell’inquinamento atmosferico, insignificanti”. E prosegue affermando che la dispersione di fumi eventualmente nocivi non poteva che essere “molto locale”: ossia, essendo il camino alto circa 10 metri, l’area di propagazione si limitava a qualche centinaio di metri. Fino a concludere che “l’inquinamento atmosferico certamente, nel caso di quei due piccoli inceneritori, se c’era era dovuto ad altre sorgenti”.
Conclusioni che trovano conferma nelle “Valutazioni della ricaduta al suolo delle emissioni dell’inceneritore per rifiuti speciali della Sistemi Ambientali S.r.l.” redatte dall’ing. Palumbo nel 1993, anch’esse acquisite in atti e riferite in particolare al forno FC10, ove si dà conto del fatto che l’area di incidenza sulle condizioni di inquinamento circostanti non andrebbe oltre i 600-700 metri.
Quanto al forno DA5, gestito dalla Contenitori e Trasporti e di dimensioni ancora inferiori, non sono stati effettuati monitoraggi sul suo funzionamento, come espressamente afferma lo stesso P.M. nella sua memoria conclusiva.
Un aspetto interessante della questione viene affrontato nel corso dell’esame del consulente tecnico dott. Cozzupoli (udienza del 29 gennaio 2008): il quale, su domanda dell’avv. Alamia, afferma che la stima -da lui effettuata- dei farmaci scaduti, fitofarmaci e composti farmaceutici destinati a combustione era basata sui registri di carico e scarico, ma teneva conto del fatto che una parte significativa dei rifiuti ascrivibili a dette categorie non venivano destinati all’incenerimento, ma venivano invece abbancati in discarica (il consulente trae questo elemento dalle dichiarazioni rese dagli imputati in sede di interrogatorio, riferite al fatto che il forno FC10 non era in grado di bruciare completamente i rifiuti ad esso destinati). Ciò, da un lato, consente di richiamare –quanto ai materiali eventualmente conferiti in discarica- le considerazioni già svolte a proposito dei capi riguardanti la gestione della discarica a vasche da parte della Sistemi Ambientali (e dell’assenza di elementi di riscontro alla diffusione al suolo e alle acque delle sostanze inquinanti ivi abbancate); e dall’altro consente di constatare la carenza e incertezza di elementi in merito all’entità delle sostanze tossiche sottoposte a incenerimento, e la totale presuntività degli elementi raccolti in merito al livello di inquinamento che sarebbe stato determinato nell’atmosfera dai forni in esame.
Sempre il dott. Cozzupoli, su domanda dell’avv. Corradino, ha affermato di non aver preso in considerazione, e anzi di non sapere, l’esistenza di altre fonti di possibile inquinamento atmosferico, in particolare di una centrale termoelettrica alimentata a carbone.
Dal complesso di considerazioni che precedono emerge la totale carenza di elementi circa l’impatto ambientale della gestione dei forni di cui ai capi A10 e A11 sull’atmosfera circostante, oltrechè (per le ragioni già viste a proposito della gestione della discarica ad opera della Sistemi Ambientali) l’assenza di elementi di riscontro circa l’efficienza causale sull’inquinamento di suolo e acqua dei rifiuti destinati all’inceneritore e poi invece abbancati in discarica. A fortiori se ne deve trarre il convincimento circa l’assenza di prove in ordine alla creazione, attraverso la difformità della gestione dei forni rispetto alle delibere regionali, di condizioni rapportabili alle nozioni di disastro ambientale o di pericolo per la pubblica incolumità.

Galleria POL-NATO –
Tra gli elementi posti a base della prospettazione accusatoria, nel corso delle indagini e poi del dibattimento, è stata sottolineata a più riprese la rilevazione della presenza di percolati che si sarebbero infiltrati nella Galleria POL-NATO sottostante l’area della discarica di Ruffino-Pitelli, e che vengono fatti risalire, sempre nell’assunto dell’accusa, ai rifiuti interrati nell’area della discarica all’epoca della gestione Contenitori e Trasporti.
Il Pubblico Ministero, nella sua memoria, afferma che sussisterebbe “un collegamento diretto tra il fronte della vecchia discarica della Contenitori Trasporti e le infiltrazioni di percolato rilevate nella galleria Pol-Nato, nel senso che le acque di pioggia, infiltrandosi nel corpo dei rifiuti della vecchia discarica, danno luogo alla formazione di percolato altamente inquinante che si infiltra nel terreno fino a raggiungere anche la galleria Pol-Nato sottostante”; e riferisce tale conclusione alle dichiarazioni rese dal dott. Palmieri, direttore dell’ARPAL La Spezia, all’udienza del 5.11.2009.
Sempre nella memoria del P.M. si evidenzia che, come riferito nelle note scritte dei periti nominati dal G.i.p. nell’incidente probatorio (libro IX), anche all’interno della Galleria Pol-Nato era stata rilevata “la presenza di elevate concentrazioni di inquinanti quali, mercurio, piombo, cadmio. cromo e nichel, rinvenute anche nel percolato della discarica”.
Vale la pena, per meglio comprendere il ruolo della galleria POL-NATO nella vicenda, ripercorrere le indagini e gli accertamenti condotti su di essa, come riferiti dal teste dott. Castiglia all’udienza del 5.6.2008:
“Noi fummo delegati dal Dottor Franz nel 1998 a fare degli accertamenti in merito a una segnalazione che era pervenuta a fine del 1997 dalla Polizia Municipale di La Spezia per quanto riguarda le infiltrazioni nella galleria Pol Nato che erano infiltrazioni di acqua contaminata poi risultata essere quanto meno nell'ambito dell'incidente probatorio percolato di discarica e successivamente anche definita anche così dall'Arpal, dai successivi accertamenti. La Polizia Municipale di La Spezia aveva segnalato alla Procura l'episodio di gestione di questi infiltrazioni, come erano state gestite queste infiltrazioni negli anni precedenti e il Dottor Franz ci delegò nelle indagini anche perché essendo in parte connesso in quel periodo, c'era già l'incidente probatorio legato agli aspetti della galleria Pol Nato e ci occupammo anche di questo aspetto …omissis… la ricostruzione l'abbiamo fatta sia attraverso l'acquisizione degli atti presenti presso l'Asl, presso il Comune, presso la Provincia e sia ascoltando alcuni testi e mi riferisco in particolare al Dottor Filippelli che allora appunto firmava le analisi del presidio multizonale di prevenzione, al tecnico Garibbo dell'Asl relativo al servizio di igiene e del Dottor Biso del Comune di La Spezia e del Capitano Ingegnere Bellanova che era il responsabile di gestione della galleria PoI – Nato ...omissis… Per andare agli aspetti documentali da parte nostra di ricostruzione il tutto nasce il 22 novembre del 1995 quando l'Aeronautica Militare, cioè comparto di Parma a firma del Capitano Bellanova richiede l'intervento del presidio multizonaledi prevenzione in riferimento ad alcune infiltrazioni venute da acqua lungo la volta di questa galleria, galleria che è posizionata tra Via Rigazzara e Via San Bartolomeo con una lunghezza di circa un chilometro e mezzo ed è una galleria in pendenza nel senso che dalla quota altimetrica più elevata di Via Rigazzara scende verso il mare, verso Via San Bartolomeo, quindi è in pendenza. L'Aeronautica Militare aveva riscontrato appunto la presenza di una serie di infiltrazioni lungo la volta che a prima vista sembravano di acqua non pulita, che c'era un acqua contaminata e quindi a titolo precauzionale, proprio per cautelarsi ha scritto il 22 novembre al presidio multizonale chiedendo delle analisi delle acque con la finalità di capire cosa doveva farne, perché ci poteva essere una problematica di inquinamento e quindi di evitare anche di andare contro Legge, in questo senso. Il presidio multizonale fa dei campionamenti il 28 novembre del 1995 e rende noto gli esiti dei certificati analitici il 7 dicembre del 1996, quindi, gli esiti analitici sono del 7 dicembre del 1996. I referti analitici di questi campioni di acqua danno come riscontro in particolare delle situazioni diverse a seconda della posizione del campionamento rispetto all'imboccatura d'uscita su Via San Bartolomeo. Abbiamo un'analisi a cinquanta metri dall'uscita, un'analisi a cinquecento metri e un'analisi a mille e due. Il dato rilevante è nell'analisi a cinquecento metri dall'uscita perché il certificato analitico mostra uno dei valori per quanto riguarda per esempio il COD piuttosto alti, il ferro in particolare e il cloruro Cl che risultano in quel caso, nel caso specifico, in quella analisi è stato indicato che superano i limiti della tabella 1 della Legge allora 38 dell'82 sugli scarichi civili in acque superficiali, quindi, prendono in quel caso come parametro quello però diciamo che è un aspetto incidentale in quel momento, anche perché poi l'Arpal nel 1998 quando rieffettuerà tutta la campagna dal gennaio del 1998 di rilevamenti attraverso la quale poi verrà stabilito che trattasi di percolato di discarica e verrà destinato al convogliamento in una vasca da cui poi dovrà andare a smaltimento quindi, praticamente a depurazione, applica invece, la tabella A della Legge Merli cioè lo scarico in acque superficiali di scarichi industriali perché se guardiamo l'analisi del 7 dicembre del 1995 già nell'analisi del 7 dicembre del 1995 il valore del COD è sei e novanta cioè limite della tabella A è centosessanta, cioè già in quell'analisi c'è un'evidenza di COD elevato che poi come vedremo insieme a tanti altri parametri dà un po' un indice legato e connesso al percolato di discarica perché è una caratteristica insieme a tanti altri parametri. Chiaramente l'analisi che poi fa l'Arpal nel 1998 è molto più complessa, inserisce una serie di solventi e verrà un quadro sempre più o meno in quella posizione della galleria molto più evidente, cioè viene esplicitato molto di più. In questa analisi essendo pochi i parametri analizzati rimane un pochino più coperto. Queste analisi vengono trasmesse all' ufficio ambiente della Provincia, cioè il presidio multizonale di prevenzione trasmette praticamente le analisi all'ufficio ambiente della Provincia, le trasmette il 7 dicembre del 1996, trasmette le analisi per gli eventuali incombenti di Legge. …omissis… Tornando all' aspetto di ricostruzione documentale il 7 dicembre il presidio multizonale di prevenzione trasmette le analisi all'ufficio ambiente della Provincia e quindi al Dottor Sommovigo. Trasmette le analisi e verranno fatte successivamente altre analisi su input della Provincia, credo il 22 gennaio del 1996, quindi 7 dicembre abbiamo la prima tranche di analisi e vengono rifatte il 22 di gennaio e danno un aggravamento della situazione in particolare per quanto riguarda la zona sempre a cinquecento metri perché, forse è un dato che non ho precisato, il valore dello scarico in uscita dalla galleria, perché le venute d'acqua sulla volta della galleria vengono convogliate in una canaletta grigliata che corre lungo il bordo della galleria, quindi, queste acque che per gravità perché abbiamo detto che la pendenza va da Via Rigazzara a Via San Bartolomeo scendono verso, vengono poi raccolte in una tombinatura e quindi si mescolano fra loro da quelle a monte a quelle a valle etc.. Mentre le venute di acqua a cinquecento metri, cinquecentotrenta poi vedremo, sono contaminate da ferro, cloruri e abbiamo un cod alto, nella parte in uscita, cioè nei prelievi e cinquanta metri in realtà si abbattono per diluizione e quindi in uscita abbiamo praticamente valori entro i limiti della tabella l, questo giusto per precisione. A seguito delle analisi del gennaio del 1996 la Provincia di La Spezia e in particolare il capo settore dell'ufficio ambiente trasmette una nota all'Aeronautica Militare a seguito di questi episodi di infiltrazione attribuendo la possibile contaminazione delle acque o alle ceneri dell' Enel cioè i lagoni stoccaggio delle cenere dell'Enel o alla discarica, ad una delle due possibilità. Questo lo attribuisce in relazione al quantitativo elevato di cloruri …omissis… e indica come misura tecnica, propone il condottamento di questa uscita di acqua nella fognatura bianca in modo tale che poi venga sversata in mare invece che vada a contaminare il suolo. Questa è l'indicazione tecnica che viene data nella nota appunto del 29 febbraio del 1996. Intanto vengono fatti ulteriori sopralluoghi e qui potrà riferire, perché abbiamo sentito a testimonianza il perito Garibbo in merito a un ulteriore sopralluogo che fa il servizio di igiene ambientale, vengono fatti degli ulteriori sopralluoghi e nella nota del 29 febbraio viene anche precisato che riservandosi la valutazione più complessi va del fenomeno, cioè in questa comunicazione la provincia oltre a evidenziare questa situazione ed indicare tecnicamente il condottamento in mare di queste venute di acqua, specifica che si riserverà l'approfondimento della problematica successivamente. Successivamente il servizio di igiene ambientale fa degli altri accertamenti, fatto delle altre analisi che bene o male danno in generale una fluttuazione di queste contaminazioni al centro della galleria. Nell'estate del 1996 l'Aeronautica convoglia queste venute di acqua verso il mare come da indicazione data poi per il tramite anche del Comune data appunto dalla Provincia e non viene trovato agli atti e noi abbiamo fatto le verifiche, nessuna autorizzazione scarico, non abbiamo trovato autorizzazioni da parte della amministrazione provinciale allo scarico di queste acque, quindi, non esiste agli atti nessuna autorizzazione allo scarico. L'unica nota e ultima nota che troviamo agli atti è quella del 29 febbraio per quanto riguarda l'indicazione del condottamento. La vicenda si ferma cosi, viene fatto il condottamento in mare e riprende poi a novembre del 1996 dopo gli episodi del sequestro della discarica etc., viene ripreso perché l'Assessore Brusoni, l'Assessore all'ambiente del Comune segnala poi al corpo di Polizia Municipale per il tramite dell'ufficio ambientale di fare degli accertamenti perché aveva avuto una segnalazione da parte di un cittadino che faceva parte della circoscrizione, Tommaso Bronzi, che durante i lavori di realizzazione della Galleria PoI -Nato gli operai avevano avuto dei malesseri a seguito delle infiltrazioni di acqua all'interno di questa galleria. Si riattiva, diciamo così, il meccanismo per cui la Polizia Municipale poi fa degli accertamenti e alla fine giunge a fare la segnalazione poi in Procura alla fine del 1997 segnalando l'episodio del condottamento in mare e relazionando su cui noi poi abbiamo fatto gli accertamenti. Arriviamo poi al 1998 quando l' Arpal nel gennaio fa una campagna di rilevamenti, ricordiamo che c'è in corso anche l'incidente probatorio che va anche a interessare la galleria Pol Nato e quindi vengono fatti tutti gli accertamenti, nell'ambito della perizia, nell'ambito degli accertamenti dell'Arpal nel 1998 viene stabilito che si tratta di percolato di discarica e quindi viene attribuita alla venuta di percolato di discarica e l' Arpal dà come indicazione di raccogliere questo percolato che esce dalla volta della galleria in una vasca e portarlo a depurazione considerandolo un rifiuto liquido come del resto è il percolato di discarica nei pozzi che viene portato a depurazione”.
Altre fonti di prova hanno riferito in ordine alle infiltrazioni nella galleria, presuntivamente riconducibili alla discarica soprastante, e al condottamento dei percolati verso il mare. Ciò all’evidente scopo di inferirne un grado di inquinamento del terreno, nel quale erano stati abbancati rifiuti pericolosi all’epoca della gestione Contenitori e Trasporti, così elevato da determinare dette infiltrazioni e da costituire pericolo per la pubblica incolumità.
In realtà, le stesse fonti di prova addotte dall’accusa impediscono di pervenire a siffatte conclusioni.
Innanzitutto, i quantitativi di percolato infiltrato nella galleria non erano di carattere massivo, ma limitato.
Ne riferisce il dott. Palmieri, quando afferma, all’udienza del 5.11.2009, che all’interno della galleria scendevano dei gocciolamenti di sostanze derivanti sia dalla corrosione della volta in cemento armato, sia da materiali/liquidi di percolamento, anche se in misura non significativa: “I colleghi chimici ravvedevano unitamente ad un COD abbastanza alto anche la presenza di sostanze organiche in queste acque che venivano .... anche se in misura ridotta e non estremamente copiosa”.
Il teste Garribbo, ispettore USL, all’udienza dell’8.11.2009 dichiara “C’era una canalizzazione grigliata dove entrava questo liquido diciamo apprezzabile sotto l’aspetto, ecco, di una fuoriuscita costante. Invece come quantità non direi che avesse particolarissimo proprio pregio, come quantità massiva. Però la cosa avveniva a parete, scivolava con costanza questo liquido …omissis… Tutta la galleria e presumibilmente questo sversamento di diciamo, ripeto apprezzabile come continuità ma non massivo come quantità, sicuramente sfociava a mare perché alternative non c’era”.
Nemmeno sulla riconducibilità del percolato in esame alla discarica soprastante la galleria, i testi sembrano fornire indicazioni dirimenti.
Il dott. Palmieri riferisce che gli accertamenti in tal senso avevano carattere presuntivo: “la presunzione nostra, attraverso anche poi una indicazione su carta topografica del percorso della galleria, la presunzione era che provenisse dalla vecchia discarica di Pitelli”.
L’isp. Garribbo a sua volta afferma che “L’origine di tale inquinamento possa essere provocato dalla vecchia discarica della Contenitori Trasporti che sempre da informazioni assunte parrebbe essere soprastante la galleria (…) L’unica cosa che posso affermare con certezza è che le acque quando andavano all’interno della canalizzazione grigliata scorrevano verso il mare…”.
Quanto poi agli accertamenti peritali, la difesa non ha mancato di segnalare che in base alle rilevazioni eseguite dai periti nominati dal G.i.p., in base a quanto risulta dalle tabelle allegate alla perizia (vol. IX, tavola 13, pag. 1484), su 84 parametri, 64 rispettano i limiti per la potabilità delle acque, e 78 i limiti di tabella A) della Legge Merli, peraltro in modo scarsamente significativo.
In effetti, qui come in tutte le altre rilevazioni sulla qualità delle acque eseguite nel corso delle indagini, la significatività delle rilevazioni appare modesta, sia per le percentuali di superamento generalmente contenute, sia perché la normativa di riferimento non appare probante in tal senso, con particolare riguardo al DPR 236/88, alla normativa sulla qualità delle acque a destinazione salmonicola o ciprinicola, alle tabelle A e C della legge 319/76. E, quanto alle sostanze presenti in misura più massiccia (COD, cloruri e ferro), viene correttamente evidenziato ciò che risulta dallo Studio condotto dall’ARPAL sulla situazione ambientale nella zona sud-orientale del comune della Spezia (acquisito in atti) e che in parte è stato riferito anche da fonti di prova dell’accusa: e cioè che si tratta di prodotti riferibili, con ogni probabilità, a uno stato avanzato di corrosione di strutture portanti della galleria (realizzata, come risulta dagli atti, per conto dell’Aeronautica Militare in epoca molto risalente). Il dott. Palmieri ha precisato, all’udienza del 5.11.2009, che la rilevazione di ioni cloro e sodio, di possibile origine marina (le acque erano inizialmente canalizzate verso il mare) induceva a pensare che la presenza di COD elevato potesse essere frutto di una sovrastima, atteso che ciò può risultare proprio da una presenza di forti concentrazioni di cloruro di sodio.
Infine, è stato giustamente evidenziato che per quanto concerne la presenza di piombo essa risulta più significativa nelle rilevazioni “a monte” della discarica, inferiore “a valle”: il che avvalora la tesi –a più riprese sostenuta dalle difese- secondo cui la presenza di sostanze inquinanti da piombo è ragionevolmente attribuibile a fonti inquinanti diverse dalla discarica di Ruffino-Pitelli, e in più occasioni elencate negli atti.
In conclusione, possono focalizzarsi i seguenti aspetti:
• è del tutto dubbio, e non ha comunque trovato riscontro (se non in mere presunzioni da parte degli esperti dell’accusa) che le tracce di sostanze inquinanti riscontrate nella percolatura della galleria fossero riferibili alla discarica di Ruffino-Pitelli;
• sia per l’entità quantitativa di dette percolature, sia per l’entità delle sostanze inquinanti in essa rilevate non vi sono elementi per sostenere che esse risultassero nocive per la salute (non hanno trovato riscontro le voci, segnalate alla Polizia Municipale della Spezia secondo quanto riferito dal dott. Castiglia, circa presunti casi di intossicazione di operai che lavoravano all’interno della galleria, e men che meno circa la riconducibilità eziologica di tali casi indimostrati ad inquinanti provenienti dalla discarica);
• ciò esclude sia che le rilevazioni eseguite nella galleria POL-NATO abbiano un valore probatorio circa l’entità e la pericolosità dell’inquinamento del terreno soprastante, e adibito a discarica sotto la gestione Contenitori e Trasporti; sia che i percolati rilevati in galleria provenissero dalla discarica; sia, e soprattutto, che essi conclamassero condizioni rapportabili alle nozioni di disastro ambientale o di pericolo per la pubblica incolumità che si sono delineate in precedenza.

Le ulteriori imputazioni ex art. 434 c.p.
Ben poco è a dirsi in merito alle ulteriori imputazioni in cui è suddiviso il capo A), non riconducibili a quelle finora analizzate. Ci si riferisce ai capi da A15) a A18).
Le condotte ivi descritte, intese come finalizzate a concorrere nel delitto contestato ex art. 434 c.p. (come articolato nei già esaminati capi da A1 ad A14 in cui è articolato il capo A), appaiono del tutto diverse ed anzi materialmente estranee rispetto a quelle di concreta manomissione dell’assetto dei luoghi nei quali si assume, nell’editto imputativo, essersi verificato il delitto di disastro ambientale.
Peraltro, la fondatezza degli addebiti da A15) ad A18) è condizionata anch’essa al materiale verificarsi del disastro o, quanto meno, del pericolo per la pubblica incolumità.
E poiché il collegio ritiene che il verificarsi di tali eventi, per le considerazioni che precedono e per quelle che ulteriormente saranno sviluppate nei successivi paragrafi, non sia stato comprovato in sede dibattimentale, tale dato –riferito alla carenza di un elemento costitutivo della materialità della fattispecie- deve ritenersi assorbente su ogni altra questione e rende del tutto ultronea la verifica della fondatezza degli addebiti di cui ai citati capi da A15) ad A18), con particolare riguardo alla ivi descritta condotta degli imputati ai quali detti reati sono contestati.

Questioni di carattere generale: la carenza di prova circa il disastro ambientale o il pericolo per la pubblica incolumità sotto il profilo del rischio-salute
In relazione al complesso di considerazioni che precedono, può affermarsi che le emergenze probatorie confluite nel sapere processuale hanno consentito di stabilire che nei diversi siti interessati dalle condotte contestate sono stati sicuramente conferiti rifiuti che, secondo le indicazioni fornite dai periti, possono in generale definirsi pericolosi o tossici.
Peraltro, l’oggetto del processo non riguarda né la configurabilità di illeciti ambientali, né la configurabilità di illeciti riguardanti alterazioni dell’assetto idrogeologico o ambientale dei siti interessati (sebbene, sotto quest’ultimo riguardo, sia stata evidenziata l’alterazione dello stato dei corsi d’acqua presenti in zona, e si sia molto insistito sul fatto che la realizzazione della discarica a vasche da parte della Sistemi Ambientali sia stata difforme rispetto ai criteri di cui al progetto elaborato nell’89 dall’ing. Sanfilippo).
Oggetto del processo –con riferimento ai capi d’imputazione che si sono fin qui esaminati- è essenzialmente quello della configurabilità o meno del delitto di disastro ambientale (in alcuna delle diverse forme previste dal codice penale), delitto –lo si ricorda- rubricato fra quelli contro la pubblica incolumità.
E’ stata, bensì, espletata un’imponente e anche meritoria attività d’indagine e di acquisizione di elementi di prova, ad opera della polizia giudiziaria, dei periti nominati dal G.i.p. e dei consulenti nominati dalle parti, attività completata con l’assunzione di numerosissime fonti di prova orale e documentale e di elaborati di indubbio pregio scientifico. Tale attività ha consentito di evidenziare numerose anomalie nella gestione delle aree adibite a discarica, e di accertare che, nei siti interessati, la gestione dei rifiuti e in generale delle attività connesse alla discarica è stata effettuata in modo a dir poco irregolare, per alcuni versi illecito o comunque non rispondente a buona parte delle prescrizioni impartite dalle autorità competenti, e sicuramente all’insegna di una incuria per certi versi dolosa dell’assetto dei luoghi e dei corretti criteri di gestione dell’attività di smaltimento rifiuti.
Ciò posto, altro è verificare la presenza o meno di tali irregolarità o violazioni, e della sussistenza degli illeciti in tal senso configurabili (illeciti che, peraltro, sarebbero comunque ad oggi tutti ampiamente colpiti da prescrizione); altro è verificare se nei fatti accertati sia ravvisabile il delitto di disastro ambientale (semplice o aggravato, doloso o colposo).
Sotto quest’ultimo aspetto, e per la molteplicità di ragioni che si sono fin qui illustrate, la fondatezza delle imputazioni non è stata accertata; e ciò con specifico riguardo all’evento del reato (dannoso o pericoloso).
Giova ripetere, al riguardo, che, per le considerazioni svolte in premessa, la nozione di disastro ambientale di cui all’art. 434/2 c.p. va riferita a un evento naturalistico di grandi proporzioni, consistente nell’utilizzo, nella manipolazione o nella dismissione di grandi quantità di sostanze pericolose per la salute umana, che interessi siti destinati alla vita dell’uomo o insediamenti agricoli, e che abbia durata, ampiezza e intensità tali da mettere a repentaglio la vita e/o la salute di un numero indeterminato di persone; viceversa, si è detto che il pericolo per la pubblica incolumità di cui all’ipotesi contemplata al primo comma dell’art. 434 c.p. dev’essere costituito da una condizione di concreta possibilità di esposizione della collettività al verificarsi di un disastro nei termini appena delineati, pur in assenza di un mutamento naturalistico nella realtà .
Sotto tali profili, come si è già visto analiticamente in ordine ai diversi siti interessati alle condotte contestate, e come emerge anche sul piano generale e sintetico con riguardo al complesso di detti siti, non si è posta sufficiente attenzione, nella dimostrazione della fondatezza delle accuse, a ciò che l’imputazione richiedeva con riguardo non tanto alla descrizione delle condotte (che, a ben vedere, è essa stessa insufficiente sotto tale profilo), quanto alle disposizioni di legge oggetto di addebito, con particolare riguardo –appunto- al delitto p. e p. dall’art. 434 c.p., ed in particolare all’evento (dannoso o pericoloso) di tale reato.
La contestazione di tale ipotesi delittuosa, infatti, postulava necessariamente e indefettibilmente che formasse oggetto di accertamento il fatto che, quale conseguenza di dette condotte, tutti o alcuni degli elementi fondamentali dell’ecosistema (suolo, acqua, aria) fossero non solo inquinati o comunque pregiudicati nelle loro caratteristiche, ma che lo fossero al punto di determinare un rischio concreto e diffuso di danni alla vita e/o alla salute della popolazione interessata o, quanto meno, il pericolo concreto che un tale rischio venisse a determinarsi.
Gli accertamenti condotti sotto tali profili non hanno però fornito elementi probatori significativi o, comunque, decisivi.
Brevemente si riassumono, di seguito, le emergenze istruttorie riguardanti le singole componenti dell’ecosistema, emergenze già analiticamente esaminate nelle pagine che precedono.
In ordine alla componente acqua, le analisi presso le aree interessate nel tempo alla gestione dei rifiuti e quelle immediatamente prospicienti, eseguite sia attraverso i pozzi oggetto di accertamento, sia nei corsi d’acqua presenti in sede (in specie, rio Pagliari e torrente Canalone), sia nei reflui comunque attribuiti alla presenza di percolati da rifiuti (es. acque di lavaggio del piazzale IPODEC; reflui provenienti dalla Galleria POL-NATO, ecc.), hanno consentito di rilevare il superamento di parametri stabiliti dalla normativa sulle acque in relazione a determinate sostanze chimiche; ma tale superamento, come si è avuto ampiamente modo di vedere –e come meglio e più compiutamente si evince in atti- è stato limitato a un numero alquanto contenuto di campionature; è stato, per lo più, di contenuta –e spesso frazionale- entità; e, per di più, è stato in larga parte rilevato in base a parametri decisamente discutibili in un’indagine sul livello di inquinamento delle acque di superficie o addirittura sotterranee (ossia in base al DPR 236/88, o alla normativa per le acque destinate alla vita dei salmonidi o dei ciprinidi), e solo in termini molto limitati in base ai parametri della Legge 319/76 (c.d. Legge Merli).
Oltre a ciò, non sono state effettuate, o quanto meno completate, le indagini riguardanti il percorso delle acque in cui è stata rilevata la presenza di sostanze inquinanti, non essendovi stata una specifica verifica idrogeologica circa la presenza di falde sotterranee, né essendo stato comunque accertato se le acque in questione seguissero un percorso che ne determinasse l’utilizzo da parte della popolazione presente o circostante, a scopi agricoli, di allevamento o di consumo diretto, o che determinasse la confluenza di sostanze inquinanti (in termini di maggiore o minore pericolosità) in mare o, comunque, in luoghi direttamente a contatto con le persone.
Anche e soprattutto sotto questo profilo, nulla è emerso circa l’influenza delle sostanze inquinanti rilevate sulla determinazione di condizioni di danno o di pericolo concreto per la pubblica incolumità.
Quanto alla componente suolo, si è visto che l’accertamento relativo all’interramento diretto e non protetto di rifiuti anche pericolosi nell’area IPODEC e nell’originaria discarica di Ruffino-Pitelli (nell’epoca di gestione del sito da parte della Contenitori e Trasporti) non si è accompagnato ad alcun accertamento riguardante l’eventuale utilizzo non solo dell’area in questione, ma nemmeno di aree comunque interessate direttamente o indirettamente dall’inquinamento, per finalità agricole, di allevamento o comunque determinanti contatto diretto con una quantità indeterminata di persone, da parte delle popolazioni dell’area stessa: è, bensì, notoria la presenza di aree residenziali geograficamente non distanti dai siti in questione, ma ciò non è sufficiente, in totale mancanza di elementi specifici probatoriamente utilizzabili (con peculiare riguardo all’utilizzo del suolo a scopi attinenti alla vita umana), a far concludere per una condizione di pericolo riconducibile alla presenza di sostanze inquinanti nel suolo dell’area adibita a discarica o comunque all’interramento di rifiuti.
Quanto poi al periodo di gestione della discarica da parte della Sistemi Ambientali, si è avuto modo di vedere che, da un lato, l’area adibita a discarica era stata realizzata a vasche con impermeabilizzazione della base delle stesse mediante teli (la cui tenuta è stata riconosciuta, come si è visto, anche dal consulente del P.M. dott. Sommaruga) il che evidentemente non ha consentito la propagazione delle sostanze inquinanti al sottosuolo o a terreni viciniori, diversi dalle aree adibite a discarica; dall’altro che le tracimazioni di percolato che hanno interessato occasionalmente i terreni immediatamente vicini non hanno determinato condizioni di inquinamento significative, come chiarito anche dal perito nominato dal G.i.p. in incidente probatorio, prof. Sanna.
A maggior motivo è rimasto escluso l’interessamento della popolazione della zona a fenomeni di inquinamento dannosi o pericolosi, rimasti comunque circoscritti all’area adibita a discarica e che non hanno comunque interessato, né direttamente né indirettamente, elementi naturali utilizzati per scopi attinenti al sostentamento delle persone, nè hanno in ogni caso determinato una comprovata esposizione a sostanze nocive della popolazione residente.
Infine, in ordine alla componente aria, le indagini condotte nei siti interessati si sono limitate alla constatazione dell’esalazione di biogas dalla discarica gestita dalla Sistemi Ambientali, il cui accertamento non è stato peraltro eseguito mediante analisi scientifiche, ma solo e unicamente in base alla rilevazione di vapori maleodoranti, sicuramente molesti ma di cui non è stata comprovata la diffusa nocività o pericolosità che l’imputazione imponeva; nonché alla constatazione della combustione, peraltro insufficiente, di rifiuti tossici presso i forni inceneritori posti, nel tempo, a servizio della discarica: al riguardo, gli accertamenti tecnici (in specie quelli del perito del G.i.p., prof. Liuzzo) hanno anzi consentito di stabilire che i forni in questione, sicuramente sottodimensionati rispetto ai conferimenti, non erano in grado di propagare fumi eventualmente nocivi se non nell’arco di qualche centinaio di metri, e comunque sicuramente con effetti trascurabili o quanto meno non accertati sulla vita e sulla salute delle persone.
A ciò va aggiunto un dato a più riprese –correttamente- evidenziato dalla difesa.
Il dato è quello della totale assenza, nel complesso degli atti acquisiti al sapere processuale, di notizie certe riguardanti effetti patologici o dannosi sulla salute di persone, etiologicamente riconducibili alle condotte contestate. Il che appare singolare nell’ambito di un giudizio di penale responsabilità per reati contro la pubblica incolumità.
Al riguardo, tra l’altro, l’accusa si era proposta di comprovare che negli abitanti di Pitelli, Pagliari, San Bartolomeo e Ruffino si fosse determinata la diffusione di eventi patologici, “caratterizzata soprattutto da esiti sanitari quali bruciore, arrossamento degli occhi, del naso, della pelle ed anemia riconducibili alla contaminazione ambientale da gas e vapori, pulviscolo contenente metalli pesanti, piombo e cadmio, distribuiti uniformemente nella zona”.
Vi sono stati, bensì, riferimenti di alcune fonti di prova a segnalazioni o accertamenti riguardanti manifestazioni patologiche teoricamente riconducibili all’esposizione a fattori tossici o irritanti, ma di cui non sono riscontrate la rilevanza e l’eziologia (a mero titolo esemplificativo: i casi di dermatite, di diffusione apparentemente superiore alla media, cui fa riferimento il teste dott. Brusoni all’udienza dell’8.10.2009, riguardo ai quali è però lo stesso teste a precisare che l’ASL, cui la cosa era stata segnalata, non accertò emergenze particolari; o quanto riferito a proposito dell’indagine epidemiologica espletata dal dott. Palmieri, cui si farà cenno in seguito, i cui esiti non hanno fornito indicazioni significative –come confermato anche dal CTD prof. Ferri all’udienza del 4.3.2010- e sono oltretutto riferibili, come si vedrà, ad altre possibili fonti inquinanti)
Di un accertato impatto delle sostanze inquinanti sulla salute della cittadinanza non è stato, in sintesi, fornito alcun riscontro, nel senso che alcun documento sanitario, certificato medico o altro, che si riferisse con certezza a malattie o condizioni patologiche connesse all’esposizione a inquinamento è stato prodotto in atti, né alcuna specifica indicazione diagnostica su queste o altre manifestazioni patologiche è stata acquisita al compendio probatorio; soprattutto, non è stata offerta prova della riferibilità scientifica di simili fenomeni patologici a contaminazione ambientale; e ancor meno è emersa evidenza del fatto che un simile rapporto di causalità fosse riconducibile ai rifiuti e ai materiali inquinanti conferiti in discarica, anziché a fattori inquinanti di altra origine o derivazione, la cui presenza –scarsamente indagata dai periti e consulenti dell’accusa- è invece emersa in dibattimento, in tutta la sua rilevanza.
Proprio a tale ultimo riguardo, e a tacer d’altro, la presenza in zona di strutture o stabilimenti in grado di provocare la diffusione di sostanze inquinanti potenzialmente nocive per la salute è emersa, per tabulas, grazie alla produzione agli atti di un’ordinanza sindacale risalente al 27 dicembre 1978, ossia a epoca antecedente le condotte contestate, e comunque riferita a fonti di inquinamento del tutto diverse ma insistenti a loro volta nell’area interessata.
Si ricorda che l’ordinanza in esame fa riferimento agli “esami chimici effettuati dal Laboratorio Provinciale d’Igiene e Profilassi sui campioni di visceri ed organi di animali da cortile e su campioni di vegetali, prelevati nella zona circostante lo stabilimento “Reparto Ossidi” della Soc. mineraria e metallurgica di Pertusola sita in via Pitelli n. 47”; e che con essa veniva vietato “il consumo ed il commercio di ortaggi, le cui parti commestibili (foglie, radici, bulbi, ecc.) sono a contatto con il terreno, a partire dall’intersezione di via della Rosca con via Pitelli fino al Cimitero di Pitelli”, nonché “il consumo di frutti, di ortaggi (pomodori, peperoni, melanzane, fagioli, piselli, fave, ecc.) sospesi dal suolo e maturati nella zona predetta, che preventivamente non siano stati accuratamente lavati”, “il consumo delle teste, dei visceri e di tutti gli organi interni (fegato, reni, ecc.) dei conigli allevati nella zona sopraindicata mentre è consentito il consumo delle parti muscolari degli stessi, limitatamente i proprietari”, “il commercio dei predetti conigli”; e, infine, venivano vietati “sia il commercio che il consumo di ogni parte dei volatili da cortile (polli, tacchini, oche, faraone, ecc.) allevati nella zona sopraindicata”, con l’ulteriore suggerimento “di non alimentare gli animali da cortile prevalentemente con vegetali raccolti sul territorio sopradescritto”, mentre il consumo “delle olive e della frutta prodotte nei territori ubicati nella zona di cui trattasi” veniva consentito “dopo accurato lavaggio”.
Oltre allo stabilimento della Pertusola cui fa riferimento l’ordinanza, è emerso che in zona –e comunque a distanza abbastanza ridotta da poter spiegare alternativamente l’origine dei peraltro non diffusivi fenomeni di inquinamento accertati- sono o erano presenti insediamenti in grado di veicolare nelle componenti fondamentali dell’ecosistema dell’area sostanze inquinanti del tipo di quelle accertate (dalla centrale ENEL, allo stabilimento PBO, agli insediamenti della Marina Militare, ad altre aree adibite a discarica non comprese fra quelle gestite nel tempo dagli odierni imputati e menzionate in rubrica).
Ne sono la prova:
- l’“Indagine epidemiologica sulla distribuzione del piombo ematico in una popolazione campionaria nei quartieri sudorientali della Spezia e sua correlazione con i dati ambientali e i tassi ematici delle popolazioni campionarie locali”, curata dal dott. Palmieri dell’USL n. 5, che evidenzia la stretta correlazione del fenomeno indagato con la presenza, in zona, dello stabilimento della PBO (che produceva appunto piombo);
- lo studio relativo agli “Idrocarburi policilici aromatici nel territorio spezzino e metalli pesanti nell’atmosfera spezzina, Campagna di rilevamento 1988-1989”, realizzato dal Comune e dalla Provincia della Spezia, in base al quale è emerso che la principale causa di inquinamento da IPA (e anche da alcuni metalli pesanti) è riferibile all’inquinamento urbano (traffico) piuttosto che a quello industriale ed è presente nelle aree urbane in misura maggiore che in quelle industriali;
- la relazione su“La città e l’ENEL - convegno di Villa Marigola del 24 novembre 1994” in base alla quale –soprattutto nello studio su “Muschi e suoli per il controllo della contaminazione da metalli”- risulta che l’impatto inquinante della centrale ENEL, consistente in una massiccia presenza di metalli e altri inquinanti derivati dalle combustioni di carbone e olii della centrale stessa, si verifica in un raggio di 5 km di distanza dall’impianto, viene indicato come direttamente riferibile ad esso e interessa, fra le altre, l’area di Pitelli.
Si vede perciò che, indipendentemente dal fatto che i fenomeni patologici cui si è fatto cenno non hanno trovato riscontro, la riconducibilità di eventuali condizioni di pericolo (anch’esse non comprovate, nei termini di diffusività e concretezza del rischio postulate dalle norme oggetto di addebito, come si è avuto modo di affermare e ribadire più volte nelle pagine che precedono) non può essere neppure ascritta apoditticamente alle aree indicate nell’imputazione, e alle condotte contestate agli imputati in relazione alla gestione delle attività di smaltimento rifiuti in dette aree.
Vi sono anzi evidenze in base alle quali la presenza di sostanze inquinanti accertata nei siti in relazione ai quali si procede potrebbe essere riferibile a fonti inquinanti diverse da quelle oggetto di imputazione. Il che, a ben vedere, trova una sostanziale conferma anche nelle note scritte redatte dal collegio peritale nominato dal G.i.p. laddove si afferma, con riguardo alle analisi condotte sui pozzi in prossimità dell’area IPODEC, che “a monte dei suddetti pozzi, che insistono sulle falde superficiali ubicate all’interno dell’abitato di Pagliari, sono presenti anche altre attività di smaltimento dei rifiuti ed altre attività industriali. Si ritiene, quindi, di non poter rilevare una connessione di causa ed effetto univoca ed esclusiva tra l’inquinamento di tali pozzi e la situazione di elevato degrado ed inquinamento presente nell’area IPODEC”.
E oltre a ciò, si ripete, nulla è stato accertato con riguardo a eventuali danni alla salute riportati da abitanti della zona, men che meno a eventuali danni direttamente o indirettamente correlabili alle attività di smaltimento rifiuti oggetto di addebito, e a forme di inquinamento dell’acqua, dell’aria o del suolo ad esse riferibili.
Si obietterà che secondo la giurisprudenza di legittimità, ai fini della sussistenza del disastro ambientale, “non è necessaria la prova di immediati effetti lesivi sull'uomo” (Cass. V^, n. 40330/2006 cit.).
Questo è certamente vero.
Ma, a prescindere dal fatto che tale prova, non raggiunta, avrebbe comunque potuto fornire riscontro, o quanto meno spia, di una generalizzata condizione di pericolo per la comunità della zona, nemmeno quest’ultima è stata comprovata, come ci si è sforzati di spiegare nelle pagine che precedono: e ciò né sotto il profilo della diffusività ed estensione dei fenomeni inquinanti asseritamente riconducibili alle condotte contestate, né sotto il profilo della concretezza ed effettività delle condizioni di pericolo che la popolazione dell’area fosse soggetta a lesioni della vita e/o della salute.
Vale la pena, conclusivamente, osservare che le conclusioni appena illustrate non mutano nemmeno a fronte dell’assunto accusatorio relativo al fatto che, ad essere esposti alle sostanze potenzialmente dannose per la salute, sarebbero stati quanto meno i lavoratori impiegati nelle aree adibite a discarica.
Ora, volendo anche considerare che si possa essere verificata l’esposizione a sostanze nocive di persone addette al lavoro nelle aree interessate al conferimento di rifiuti pericolosi, è di tutta evidenza che tale esposizione sarebbe comunque stata circoscritta, di volta in volta, a un numero ben preciso e delimitato di addetti; laddove, come si è avuto modo di precisare, il disastro ambientale è tale solo si tratti di un evento di grandi proporzioni, che interessi siti destinati alla vita dell’uomo o insediamenti agricoli, che abbia durata, ampiezza e intensità tali da mettere a repentaglio la vita e/o la salute di un numero indeterminato di persone.
Il che è evidentemente cosa diversa dall’eventuale esposizione ad agenti nocivi delle persone impiegate nel lavoro all’interno delle aree adibite a discarica.
Neppure tale argomento, quindi, coglie nel segno, sul piano della rispondenza dello stesso al thema decidendum.

Questioni di carattere generale: l’erronea prospettazione della prova “normativa” del disastro ambientale
Tra gli argomenti posti a base dell’assunto accusatorio vi è il fatto che l’accertamento del disastro ambientale sarebbe intervenuto ope legis, essendo stati emanati provvedimenti normativi che di tale condizione prenderebbero atto, come se essa fosse data per presupposta.
Da ciò inferiscono l’accusa pubblica e privata la certezza che, comunque, la sussistenza delle condizioni qualificabili come disastro ambientale sarebbe certificata da disposizioni di legge e/o regolamentari.
Tale tesi è tuttavia destituita di qualsiasi fondamento, fattuale e giuridico.
Innanzitutto, non può conferirsi valore probatorio alla ricostruzione di fatti storici posta a base di interventi legislativi o regolamentari, senza violare palesemente il principio dell’accertamento giudiziale di tali fatti attraverso la raccolta e la valutazione delle prove ritualmente acquisite, come disciplinata dalla legge: non può, cioè, il giudice essere vincolato, nella valutazione dei mezzi di prova, alle circostanze di fatto in base alle quali il legislatore (o il potere esecutivo, nel caso di norme di livello regolamentare) esercita la propria potestà normativa, circostanze la cui stessa sussistenza forma oggetto di accertamento, nell’esercizio di detta potestà, con criteri e secondo finalità affatto diversi da quelli dell’accertamento probatorio in giudizio.
Mentre, infatti, il giudice è soggetto al contenuto precettivo delle norme di legge –e, a determinate, specifiche condizioni, di quelle regolamentari- ed è tenuto a darvi applicazione (salvo, per i regolamenti, il disposto dell’art. 5 legge 20 marzo 1865, n. 2248, allegato e.), non altrettanto vale per quanto concerne gli elementi di fatto in funzione dei quali la potestà normativa trova esplicazione.
Si soggiunge che il testo normativo cui fa riferimento l’accusa (L. 426/1998) interviene in epoca successiva ai fatti di causa, con ciò che ne consegue in ordine alla stessa riferibilità temporale di siffatto, improprio richiamo probatorio alle condotte contestate.
Ciò posto, deve constatarsi per di più che il richiamo dell’accusa pubblica e privata alla legge 426/98, per inferirne che la sussistenza del disastro ambientale nell’area interessata è stata stabilita ope legis, è del tutto inconferente.
Detta legge si propone la finalità di consentire il concorso pubblico nelle realizzazione di interventi di bonifica e ripristino ambientali dei siti inquinati, tra i quali il sito di Pitelli (La Spezia) è inserito fra le aree ad alto rischio ambientale per le quali sono previsti i primi interventi di bonifica di interesse nazionale.
Peraltro la perimetrazione del sito è affidata, dalla legge, a un successivo intervento di competenza del Ministro per l’Ambiente, in base ai criteri stabiliti dall’art. 18 D.Lvo n. 22/97, e a un programma che deve tenere conto dei limiti di accettabilità, delle procedure di riferimento e dei criteri definiti dal decreto ministeriale di cui all’ articolo 17, comma 1, del decreto. Ossia a procedure amministrative ancora tutte da definire, nel loro contenuto, al momento della promulgazione della legge.
E’ ben vero che con Decreto del ministero dell’Ambiente n. 468 del 18.9.2001 n. 468, in attuazione della legge citata, veniva inclusa nel perimetro d’intervento la discarica di rifiuti, urbani speciali e pericolosi illegalmente utilizzata per lo smaltimento di rifiuti altamente pericolosi (Ruffino Ipodec); ma con successivo Decreto del Ministero dell’Ambiente del 23 settembre 2010 si precisa che l’area Ruffino-Pitelli non è più soggetta a intervento di bonifica, ma unicamente a “messa in sicurezza”. Tanto più che, nella premessa al decreto, si muove dalla premessa che nell’area adibita a discarica in zona Ruffino-Pitelli “sono stati principalmente smaltiti rifiuti provenienti da lavorazioni industriali (meccaniche, edili, navali e chimiche) quali rifiuti da demolizione, pulizia stabilimenti e materiali inerti, nonché in seguito all’autorizzazione dell’impianto in II categoria di tipo B, rifiuti speciali autorizzati, quali ceneri da combustione, residui di lavorazione assimilabili a refrattari, fanghi di depurazione, terre da bonifica”.
Ma va aggiunto un ulteriore, e –a parere del collegio- dirimente argomento, giustamente evidenziato dalla difesa.
E’ infatti noto che, fra i siti considerati dalla legge 426/98 come aree ad alto rischio ambientale, e per i quali erano ivi previsti interventi di bonifica di interesse nazionale, era inserita anche l’area di Venezia-Porto Marghera.
Ora, è stato giustamente osservato che, in riferimento a quest’area, in occasione di altra pregressa –e ben nota- vicenda processuale, attinente il reato di disastro innominato (ambientale) nell’area del Petrolchimico di Porto Marghera, è stata esclusa, dai giudici di merito e infine dalla Corte di Cassazione (Sezione IV^, sentenza n. 4675/2007), la sussistenza dell’elemento materiale del reato, quanto meno a far data dal 1973.
All’evidenza, in detta vicenda processuale, l’inserimento tra i siti ad alto rischio abbisognevoli di interventi di bonifica, stabilito dalla legge 426/98, non ha impedito che in sede di giudizio si escludesse l’equazione fra tale classificazione e la sussistenza del delitto di disastro ambientale.
Alle considerazioni che precedono, si soggiunge che, nelle premesse di cui al recente decreto del Ministero dell’Ambiente in data 23.9.2010, pur dandosi atto dell’urgenza dell’attuazione del Progetto definitivo di messa in sicurezza permanente della discarica Ruffino-Pitelli (urgenza peraltro sollecitata dal Comune della Spezia, parte nel presente procedimento), essa viene sostanzialmente fondata sul volume e sulla tipologia dei rifiuti conferiti in discarica, sulla presenza di una parte della stessa (quella occidentale) non impermeabilizzata alla base “con conseguente rischio di trasferimento della contaminazione dai rifiuti alle matrici ambientali (in particolare acque di falda)”, ed è appena il caso di rinviare, al riguardo, alle considerazioni già svolte a proposito dell’assenza di elementi probatori –nell’ambito del presente giudizio- circa la presenza di falde acquifere sottostanti e il loro deflusso verso fonti attingibili dall’uomo o comunque a contatto con la popolazione; senza contare che, sempre nelle premesse del decreto, si precisa che “le indagini eseguite sulle acque di falda prelevate dai pozzi posti a valle idrogeologico della discarica hanno rilevato, solo in certi casi, la presenza di anomalie chimiche costituite da metalli pesanti, cloruri, solfati ecc.”.
E’ di tutta evidenza, quindi, che il richiamo normativo operato dall’accusa, oltreché giuridicamente inidoneo a costituire fonte di prova delle premesse in fatto da cui esso ha preso le mosse, è altresì sostanzialmente privo di rilievo nel merito, con riguardo all’inquadramento dei luoghi come interessati a condizioni rapportabili alla nozione di disastro ambientale.

In conclusione, essendosi stabilito che, in ordine alle condotte contestate a titolo di disastro ambientale, non vi sono elementi di prova sufficienti per la configurabilità dell’elemento oggettivo del reato sotto il profilo dell’evento, va da sé che tutti gli imputati vanno mandati assolti dai relativi addebiti, perché il fatto non sussiste.

I DELITTI DI FALSO
Resta da dire dei delitti di falso, contestati agli imputati Sommovigo e Andreoli ai capi J e K della rubrica.
Conviene muovere dall’imputazione di cui al capo K, riferita al contenuto, che si assume ideologicamente falso, della nota n. 17165 del 3.7.1995.
Nelle rispettive qualità indicate nell’imputazione, il Sommovigo e l’Andreoli avrebbero assicurato in detta nota la congruità dei lavori al progetto approvato con la dellibera n. 3493/89, che com’è noto era conforme al progetto Sanfilippo di realizzazione della discarica di Pitelli a gradoni; laddove invece, nella discarica stessa -realizzata a vasche- veniva nel frattempo realizzata la quarta vasca, come da progetto presentato nel luglio 1995.
Conviene osservare che, in realtà, la realizzazione delle vasche in cui era strutturata la discarica (ivi compresa la quarta vasca) era già oggetto di conoscenza e valutazione da parte della Provincia e della Regione, nelle rispettive competenze di organi preposti (la Provincia al controllo e collaudo della discarica, la regione quale organo territoriale competente per le autorizzazioni).
Come si è avuto modo di vedere in precedenza, il teste Castiglia ha riferito che la sistemazione della discarica veniva eseguita con la realizzazione di vasche sovrapposte (in numero di 4, nell’assetto finale), e ciò in difformità rispetto al progetto Sanfilippo e alle delibere autorizzative; la quarta vasca veniva realizzata nel 1995 e sostanzialmente approvata dalla successiva delibera regionale n. 3171 del 1995.
Se si fa riferimento a quest’ultima delibera, invero, appare evidente che la realizzazione della discarica a vasche sovrapposte, ivi compresa la quarta, aveva formato oggetto di progetto di modifica che era stato debitamente considerato e approvato nell’iter che condusse alla delibera regionale n. 3171, conseguente ad alcuni inconvenienti segnalati nel funzionamento della discarica sotto il profilo della fuoriuscita di biogas e di liquidi di percolamento; il progetto di variante all’originaria delibera 3493/89 conseguiva alla diffida regionale n. 23127 del 30.12.1994.
In realtà, con nota n. 13227, conseguente a sopralluogo in data 18 maggio 1995, la Provincia chiede conto alla Sistemi Ambientali delle ragioni per le quali sono in corso lavori di sbancamento vicino alla pesa e lungo la strada di accesso, in area dove non risultava previsto abbancamento di rifiuti, ma solo sistemazione finale. La Sistemi Ambientali risponde con nota in data 30 maggio 1995, precisando la conformità dell’attività di risistemazione a quanto previsto in sede di variante.
Con la nota incriminata, datata 3 luglio 1995, la Provincia informa la Regione che i lavori riguardano la realizzazione della quarta vasca, ritenuti congrui al progetto vigente e alla diffida regionale n. 23127/94.
E si è visto che il progetto di variante alla delibera 3493/89 conseguiva appunto alla diffida regionale n. 23127 del 30.12.1994; detto progetto, giova sottolineare, venne poi approvato in data 26 luglio 1995 dalla conferenza di cui all’art. 23 della legge regionale n. 1/90, con conseguente variante allo strumento urbanistico del Comune della Spezia.
La conseguente delibera regionale n. 3171/95, come evidenzia lo stesso teste Castiglia, implica la sostanziale approvazione della realizzazione della quarta vasca.
Non è dato allora vedere la falsità ideologica nel contenuto della lettera del 3 luglio 1995, riferita alla realizzazione di lavori che erano congrui a un elaborato progettuale già depositato e in corso di approvazione, basato su una delibera regionale e successivamente approvato e recepito nella citata delibera n. 3171/95.
Per quanto attiene la difformità dei lavori in corso al progetto approvato con l’originaria delibera n. 3493/89, si può osservare che il richiamo della nota alla diffida regionale a elaborare una variante al progetto stesso implichi che il significato oggettivo della nota non è quello attribuitole dall’imputazione (ossia un significato incompatibile con il progetto vigente, per tale intendendosi quello a base dell’originaria delibera 3493), ma concerne appunto la realizzazione in corso di lavori già sottoposti all’approvazione degli organismi deputati al controllo e all’autorizzazione, poi effettivamente intervenuta previa approvazione della variante al progetto da parte della Regione.
Orbene, è noto che in tema di falsità ideologica, l’attestazione eventualmente infedele contenuta in un atto pubblico viene qualificata come falso innocuo allorchè essa sia del tutto irrilevante ai fini del significato dell'atto, non esplicando effetti sulla funzione documentale dell'atto stesso di attestazione dei dati in esso indicati (Cass. V^, n. 35076/2010; Cass. V^, n. 3564/2008).
Ed è appunto questa, al più, la situazione oggetto di addebito nel caso di specie; da tale addebito pertanto gli imputati Andreoli e Sommovigo vanno assolti per insussistenza del fatto.
Discorso diverso va fatto per l’imputazione di cui al capo J, rispetto al quale è appena il caso di ricordare che la condotta ivi descritta è contestata anche ai capi A16 e A17, per i quali vi è proscioglimento nel merito per non essere stato provato, come si è visto, l’elemento materiale del reato sotto il profilo dell’evento di danno o di pericolo.
Nell’imputazione sub J), si addebita all’Andreoli e al Sommovigo di avere omesso, nelle rispettive qualità di responsabili nell’ambito dell’ente deputato al controllo della discarica, di avere omesso di segnalare alla Regione Liguria, con le comunicazioni inoltrate in esito ai sopralluoghi eseguiti sul sito a decorrere dal gennaio 1993 (fino alla comunicazione in data 25.9.96), che la Sistemi Ambientali non era ottemperante alle prescrizioni della delibera 3493/89 in riferimento alla risistemazione ambientale e paesistica della discarica con interventi di ripristino vegetazionale.
Si è avuto modo di acquisire al sapere processuale che, in effetti, la prescrizione di recupero paesaggistico e ambientale dell’area, che formava espressa previsione della delibera n. 3493/89 (v. p. 62 e ss. del progetto di sistemazione finale della discarica, approvato con la delibera citata) e che era tra l’altro prevista anche dalla delibera regionale n. 6146/92, non veniva sostanzialmente mai eseguita.
Il teste Castiglia ha confermato l’omissione del recupero paesaggistico contestuale in relazione alla realizzazione della discarica con struttura a vasche anziché a gradoni, precisando che tale recupero paesaggistico non era tecnicamente possibile nella nuova e diversa strutturazione.
Nella deposizione del 6.3.08, il teste Castiglia riferisce: “Questa delibera autorizzativa che è la 6.146 del 28/12/1992 non fa altro che riprendere le prescrizioni della 3.493 fondamentalmente e precisando alcuni punti. Li cito solo perché poi saranno utili per quanto riguarda il proseguo della dissertazione. Allora, innanzitutto la prescrizione del ripristino paesaggistico contestuale alla procedura di abbancamento in pratica. Cioè, nel progetto della 3.493 era previsto una realizzazione di abbancamento dal basso verso l'alto, quindi per capirsi dal punto più basso della discarica quindi in prossimità del torrente Canalone al piede cosiddetto della discarica verso Via Ugo Botti a salire. Quindi, la procedura di abbancamento descritta puntualmente nel progetto approvato dalla 3.493, cioè il progetto di San Filippo, era previsto che la discarica procedesse in questo abbancamento progressivo dal basso verso l'alto con la prescrizione data dalla delibera autorizzativa di procedere man mano al ripristino dello stato dei luoghi. Sostanzialmente la filosofia qual era? Era quella di determinare un'attività di lavoro che chiaramente era in invasiva per l'area, però in modo tale che fosse progressivamente mascherata e fosse il meno visibile possibile, quindi con questa procedura di ripristino costante. Ripristino che poi era quella sostanzialmente della deposizione di terreno vegetale poi la messa dimora di piante, perché l'obbiettivo finale, la cosiddetta sistemazione finale dell'impianto prevista dal progetto di San Filippo approvato il 13/07/1989 era proprio quella alla fine di ottenere un versante, quindi un bacino quello appunto dell'area di discarica che fosse omogeneamente collegabile al paesaggio circostante, quindi un ripristino della vegetazione praticamente autoctona, addirittura specificava questo aspetto della vegetazione autoctona.”.
Prosegue il teste Castiglia all’udienza del 5.6.2008: “Altro aspetto che veniva indicato specificatamente e che rientrava un po' nella logica del progetto era quello di procedere di conserva in maniera contestuale al recupero paesaggistico, cioè man mano che la progressione di coltivazione, che ripeto andava a trancia di gradoni, seguiva il versante e saliva verso l'alto quindi, guadagnava quota altimetrica doveva essere seguita contestualmente dal recupero paesaggistico, cioè man mano che le parti venivano completate dei settori di abbancamento venivano completati bisognava procedere alla sistemazione a verde come era previsto nella sistemazione finale in modo tale da man mano salendo verso l'alto ottenere alla fine che nelle fasi finali avremmo avuto tutta la parte bassa già sistemata a verde e rimaneva aperta in coltivazione solo la parte che in quel momento era sotto coltivazione per ridurre nella parte finale alla chiusura e ottenere la sistemazione finale che era il famoso obiettivo adeguamento e sistemazione finale dell'impianto della delibera 34/93. Questo aspetto del recupero paesaggistico contestuale è strettamente connesso alla coltivazione secondo questa logica, voglio dire, la realizzazione che poi è stata fatta dell'impianto parzialmente ma diciamo che ha vasche sovrapposte per buona parte e parlo delle vasche una, due, tre e quattro quella finale, non permette tecnicamente il recupero paesaggistico contestuale …omissis… Quindi, in pratica si è venuta a creare questa situazione che è arrivata fino al 1996 in cui non è stato mai possibile effettuare il recupero come era da progetto”.
Al riguardo va anche osservato che la stessa delibera n. 3171/95, che come si è visto ratifica la realizzazione della discarica in vasche anziché a gradoni, prende atto che il progetto in variante approvato implica la ridefinizione (e quindi la sistemazione, sia pure in termini differenti) della discarica per reinserire il sito nel contesto ambientale e paesaggistico.
Dell’omissione delle previste opere di recupero paesistico ambientale (copertura con terreno vegetale, piantumazione alberi, ecc.) l’organismo preposto al controllo dei lavori –ossia la Provincia della Spezia, nelle persone degli imputati Andreoli e Sommovigo nella loro rispettiva qualità- non ha, effettivamente, dato alcuna segnalazione alla Regione, con ciò violando uno specifico dovere di informazione previsto nelle delibere 3493 e 6146, e comunque dando alla Regione Liguria una falsa rappresentazione della realtà.
Ora, è noto che l'incompletezza di una attestazione dà luogo ad una falsità ideologica qualora il contesto espositivo dell'atto sia tale da far assumere all'omissione dell'informazione, relativa ad un determinato fatto, il significato di negazione della sua esistenza (Cass. V^, n. 18191/2009). Nella specie, l’omissione di informazioni circa il recupero paesistico-ambientale, in quanto riferita a uno specifico dovere informativo da parte della Provincia nei riguardi della Regione, implicava effettivamente la negazione della circostanza che il recupero, in realtà, non veniva realizzato.
Si soggiunge che, come affermato anche di recente da Cass. V^, n. 43512/2010, Il reato di falso ideologico in atto pubblico è configurabile anche in relazione agli atti "interni", a condizione che gli stessi siano tipici o si inseriscano in un "iter" procedimentale prodromico all'adozione di un atto finale destinato ad assumere valenza probatoria di quanto in esso esplicitamente od implicitamente attestato. Il che accade senza dubbio anche nel caso di specie, atteso che le comunicazioni della Provincia alla Regione si inserivano, in via endoprocedimentale, nell’azione di controllo e di disciplina delle modalità attuative della discarica.
Ne consegue che, in relazione al capo J, deve riconoscersi la fondatezza dell’addebito mosso agli imputati Andreoli e Sommovigo, nelle rispettive qualità.
Va peraltro esclusa l’aggravante di cui all’art. 479 in relazione all’art. 476 c. 2 c.p.. Ed invero, l'atto pubblico, agli effetti delle norme sul falso documentale, non è di fede privilegiata per il solo fatto che il pubblico ufficiale sia rivestito ed esplichi una funzione di attestazione relativa a fatti da lui compiuti o avvenuti in sua presenza, essendo necessario che egli sia fornito di una speciale potestà documentatrice, attribuita da una legge o da norme regolamentari anche interne, ovvero desumibili dal sistema, in forza della quale l'atto assume una presunzione di verità assoluta, ossia di massima certezza eliminabile solo con l'accoglimento della querela di falso o con sentenza penale (Cass. V^, n. 802/83).
Ciò posto, dovendosi considerare ai fini dell’estinzione del reato le pene stabilite dal comma 1 dell’art. 476 c.p. in quanto richiamate dall’art. 479 c.p., non può che constatarsi l’intervenuta prescrizione del reato, in relazione all’epoca in cui esso fu commesso.

Le particolari questioni di fatto e di diritto e il volume dell’incarto processuale impongono di riservare in giorni 90 il termine per il deposito della motivazione, ai sensi dell’art. 544 c. 3 c.p.p..


P.Q.M.
Visto l’art. 531 c.p.p.,
Dichiara non doversi procedere nei confronti di ANDREOLI Sandro e SOMMOVIGO Piergiorgio in ordine al reato loro ascritto al capo J), previa esclusione della contestata aggravante, perché estinto per maturata prescrizione.
Visto l’art. 530 cpv. c.p.p. assolve ANDREANI Antonio, ANDREOLI Sandro, BERTOLLA Franco, BERTUSI Attilio, COZZANI Ettore, COZZANI Roberto, DUVIA Orazio, MARZANI Carlo Antonio, MOTTA Giancarlo, POLOTTI Eros e SOMMOVIGO Piergiorgio dai rimanenti reati loro rispettivamente ascritti, perché il fatto non sussiste.
Visto l’art. 544 c. 3 c.p.p indica in giorni 90 il termine per il deposito della motivazione.
La Spezia, 10 marzo 2011

Il Giudice estensore
(dott. Giuseppe Pavich)

Il Presidente
(dott. Mario De Bellis)

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